L'africano, l'americano e la gola squarciata Notte di movida violenta

Finisce a processo un giovane statunitense che colpì un gambiano vivo per miracolo

Luca Fazzo

Frammenti della notte milanese finiscono sotto processo: la notte sregolata e violenta nel cuore della città, nelle discoteche rutilanti del Parco Sempione. Alcol, sesso, e all'improvviso il bagliore di una coltellata. Due giovani uomini, due stranieri, si ritrovano l'altro ieri in un'aula di tribunale a rivivere quelle ore. Uno è un nero, profugo del Gambia. L'altro è un ragazzo americano, pulito e curato. I cliché direbbero inevitabilmente che il nero è il colpevole e il bianco la vittima. E invece no.

L'imputato è l'americano: Gabriel Evanoff. Se ne sta lì, pallido, occhialini, ben pettinato, nel secondo banco. Guardato a vista da due agenti penitenziari. Tra il pubblico, un interprete traduce in diretta alla madre i passaggi dell'udienza. È in carcere da sei mesi, da quella maledetta notte di ottobre in cui la sua vacanza italiana naufragò in quei pochi metri di aiuole piene di fazzoletti che vanno tra il Just Cavalli e l'Old Fashion, il pezzo più griffato della movida meneghina. Gabriel arrivò lì alle quattro del mattino, così ubriaco che rifiutarono di farlo entrare: e nell'immagine di questo ragazzo a stelle e strisce, genitori lontani e carta di credito ben caricata, per cui la vacanza in Italia si trasforma in un tour nella trasgressione è difficile non ripensare ad altre storie simili. A partire da quella più celebre, l'altra americana faccia d'angelo che risponde al nome di Amanda Knox, accusata e poi assolta del delitto di Perugia.

Al Sempione, fortunatamente, non ci scappa il morto: ma solo per pochi centimetri e per pochi secondi. Basta guardare lo sbrego che attraversa il collo della vittima, il ragazzo del Gambia; e leggere i rapporti dei lettighieri che arrivarono a sirene spiegate e salvarono il giovane prima che morisse dissanguato. Ancora un attimo, e intervennero anche i carabinieri: «Sul tetto della Triennale trovammo un ragazzo col viso insanguinato, in evidente stato confusionale. Gli facemmo delle domande ma non sembrava in sé. E dall'alito si capiva che era ubriaco». Era lui, Gabriel.

Per capire cosa fosse accaduto, bisogna farsi largo in una vicenda che - forse per rispetto verso il passaporto dell'imputato - non è stata mai divulgata né dalle forze dell'ordine né dalla Procura. E ascoltare la testimonianza che in aula, in un italiano malfermo, rende la vittima. Anche lui è un protagonista a suo modo delle notti milanesi: è in Italia dal 2014, ha chiesto asilo e gliel'hanno respinto, poi gli hanno concesso la protezione umanitaria. Non lavora, vive in una comunità di accoglienza. E i soldi che prende dallo Stato italiano li spende per andare in discoteca. Sempre gli stessi locali, l'Old Fashion e il Just Cavalli, dove è talmente di casa che la notte in cui Evanoff si presenta ai cancelli ubriaco fradicio, i buttafuori chiedono a lui, al ragazzo africano, di parlare con l'americano: perché loro non sanno l'inglese. I due vanno a sedersi su una panchina. E lì avviene il patatrac. Forse l'americano ci prova. Forse l'africano capisce male. Sta di fatto che si ribella, lo spinge a terra. E quello - così almeno dice il capo di imputazione - tira fuori dalla tasca un coltello a serramanico e gli squarcia la gola.

I carabinieri lo arrestano prima ancora che abbia smaltito la sbornia, la Procura gli nega la libertà provvisoria e lo manda a processo.

Così eccoli qua, nella stessa aula, che si incrociano senza guardarsi: piste diverse che più diverse non potrebbero, incrociate a Milano in una notte d'autunno e di noia.

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