L'eroismo di ogni giorno di un uomo esemplare

Grande dignità e capacità di lavoro, amato anche più di quanto pensasse

di Angelo Crespi

L'ultima volta che ho incontrato Claudio De Albertis è stato venerdì 21 ottobre. Mi si perdoni il racconto in prima persona che un giornalista non dovrebbe mai osare. Claudio usciva dall'ufficio della Triennale, era provato, il viso gonfio per i farmaci, il volto di colore terreo. Ciò nonostante c'era un guizzo negli occhi, quasi un sorriso da eterno ragazzo. E come in altre occasioni, mi salutò ponendomi la mano sulla spalla. Ed io feci lo stesso. Mi parve di stare per abbracciarlo, ma mi trattenni. Ero imbarazzato del mio stupore a capirlo così malato, imbarazzato perché ero sicuro che il mio sguardo tradisse lo stupore, o un moto di compatimento, o di commiserazione davanti a chi ha poco da vivere. Comparendomi davanti inaspettato, non avevo fatto in tempo a improvvisare una maschera di convenienza. Dopo alcuni minuti, dalla finestra lo vidi che lentamente si avviava ad un'auto, ingobbito, e tanto provato che il guidatore scese per rendergli possibile di salire.

Dei morti insegna Diogene Laerzio nihil nisi bonum, niente si dica se non il bene. Ma in questo caso, non c'è bisogno del ritratto positivo di circostanza e neppure di una falsa retorica, per esagerare i meriti di chi non c'è più. Claudio De Albertis aveva continuato a lavorare con lo stesso spirito di prima, anche se oppresso dal male. Una delle sue ultime presentazioni pubbliche in Triennale, la conferenza stampa di settembre, era stata un calvario: dopo l'operazione ai polmoni faceva fatica a parlare, come non avesse aria a sufficienza per declinare le parole le sputava, la voce rauca che proveniva da dentro, eppure non aveva ceduto. E anche negli ultimi giorni, dall'ospedale continuava a tenersi in contatto con il direttore, Andrea Cancellato, a fare riunioni telefoniche, a sbrigare questioni.

Non stiamo certo parlando di eroismo, di cose straordinarie, piuttosto di dignità. Molti morendo immagino si comportano allo stesso modo, solo che non hanno la ventura di essere uomini pubblici ed avere qualcuno che racconti la loro fermezza nel momento estremo. Lasciano l'esempio solo ai propri cari. Claudio invece lascia un esempio pubblico, confermato dall'allestimento della camera ardente in Triennale, a dimostrazione di quanto egli fosse ben voluto nella sua città, forse più ancora di quanto egli stesso pensasse. E tra tutti gli incarichi professionali assolti in vita, la carriera di imprenditore brillante, le varie onorificenze, di certo la presidenza della Triennale sarà quella più ricordata. Una presidenza durata cinque anni, a seguito di un mandato come consigliere, in cui De Albertis ha dimostrato grandi capacità gestionali e una finezza culturale che ha sorpreso anche alcuni iniziali detrattori, così stolidamente contrari alla sua nomina da proporre sul Corriere della Sera perfino la solita scontata raccolta di firme politicamente corrette.

Di fatto la Triennale è oggi una delle istituzioni più importanti del Paese, una delle più riconosciute e apprezzante all'estero per il design e l'architettura, uno dei luoghi più vivi di Milano, centinaia di appuntamenti all'anno, mostre, presentazioni, un museo, un teatro, una biblioteca, tre ristoranti l'unica fondazione di partecipazione italiana con soci pubblici (Stato, Regione, Comune e Camera di Commercio di Milano e di Monza) in grado di reggersi economicamente quasi da sola, e per questo decretata dal Tar come effettivamente privata. Non poco, se si pensa alla spending review, alle difficolta del mondo della cultura e allo stato in cui versano altrove i beni culturali. E la ragione del successo è in parte frutto della dedizione con cui De Albertis ha lavorato ogni giorno, perfino tralasciando la sua impresa, frutto della sua passione e anche della simpatia, del suo carisma da leader naturale, del buon umore con cui approcciava i problemi. Ma anche della sua idea politica che i veloci epicedi delle prime ore non hanno messo in luce.

Claudio era un vero liberale, un misto di pragmatismo milanese e realismo, e da liberale intendeva la cultura non come ideologia, strumento di predominio o consenso, luogo di inutile elitarismo, semmai privilegiava la cultura condivisa, che non ha paura a confrontarsi con il mercato, preferiva il senso, la bellezza delle cose, il buon gusto, l'educazione che da essa promana.

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