«Non solo si considerava il messaggero di Allah, ma si dichiarava d'accordo con le tesi dell'organizzazione terroristica di Al Qaeda; in seguito alla carcerazione presso la Casa circondariale di Milano San Vittore Monsef aveva manifestato una ulteriore radicalizzazione, tanto che i coinquilini del giovane stentavano a riconoscerlo».
Sono poche righe, tratte dall'ordine di carcerazione che lo scorso 16 aprile il giudice Paolo Guidi spiccò contro Tarik Aboulala e Monsef El Mhkayar, i due ragazzi marocchini finiti in una comunità di Vimodrone, e da lì partiti per combattere in Siria. Ora l'inchiesta è chiusa: per Monsef con la richiesta di rinvio a giudizio depositata ieri dal pm Piero Basilone; per Tarik in modo più definitivo, con la archiviazione «per morte del reo»: perché il ragazzo è caduto combattendo nei territori dell'Isis. E chissà se il processo a Monsef si farà mai, perché dai territori del Califfato tornano indietro in pochi. Ma quelle righe contenute nel mandato di cattura sono comunque importanti, perché aprono una finestra su uno dei pericoli maggiori che incombono oggi sulla lotta al terrorismo: il proselitismo che i predicatori della jihad realizzano dentro le carceri. In particolare a San Vittore, una delle prigioni italiane a maggior concentrazione di detenuti islamici.
Quanto Tarik e Monsef, entrambi classe 1995, avessero sposato la causa della furia radicale lo ha raccontato al pm Karim, un altro ospite della comunità di accoglienza dove erano vissuti i due, e che dal luglio dello scorso anno era tornato in contatto con loro via Whatsapp: «Monsef ha tentato di convincermi a raggiungerlo poiché in quanto arabo sarebbe stato mio preciso dovere. Io ho ribattuto che la cosa non mi riguardava affatto (...) al che Monsef ha cominciato ad offendermi e a minacciarmi di morte qualora fosse rientrato in Italia». Il 4 dicembre 2015 al recalcitrante Karim arriva un messaggio da Tarik Aboulala: «Quando arrivo là ti taglio la testa». Da dove arriva tanta cieca determinazione? Cosa ha trasformato un piccolo spacciatore di quartiere come Monsef in un tagliagole? Internet, certamente; e anche le prediche nella moschea di via Padova. Ma il salto di qualità avviene nelle celle di San Vittore, nei quarantaquattro giorni - tra il 12 ottobre e il 25 novembre 2013 - in cui El Mhkayar viene rinchiuso, dopo essere stato preso a vendere droga, al quinto raggio del carcere di piazza Filangieri.
È qui che si compie la mutazione definitiva. E il modo in cui avviene rispecchia in pieno l'allarme che solo di recente il ministro della giustizia Orlando ha rilanciato sul «contagio» jihadista nelle prigioni.
Al quinto raggio, Monsef El Mhkayar viene accolto nella comunità dei marocchini: è la comunità più numerosa e compatta del carcere, in grado di reggere lo scontro con le altre etnie come di avanzare rivendicazioni nei confronti dei vertici dell'istituto. Tra queste, le principali riguardano i diritti legati al Corano, a partire dall'alimentazione halal; e soprattutto il diritto ad autogestire l'attività religiosa, ottenendo in uso celle, lucernari e altri spazi comuni per trasformarli in piccole moschee. A organizzare e a predicare, un detenuto che ricopre il ruolo di imam. A sceglierlo sono gli altri detenuti, ma il sospetto è che le indicazioni vengano da fuori.
A San Vittore, Monsef non entra in contatto con sospettati di terrorismo islamico (che sono rinchiusi nelle carceri del circuito S2, a custodia speciale) ma solo con altri detenuti per reati comuni. Eppure è da questi che viene portato sulla strada del fanatismo religioso, quello che nel giro di poco più di un anno, il 17 gennaio 2015 lo porta a imbarcarsi insieme all'amico Tarik in un volo senza ritorno per il Califfato.
Riappariranno insieme il giorno dopo, in una foto sul pullman che li porta verso i campi di addestramento. L'11 aprile, Monsef posta la sua foto con mitra in mano accanto a un guerrigliero. La metamorfosi si è compiuta. Un anno dopo, l'amico Tarik trova il «martirio» in battaglia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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