L'orefice conosceva il killer La pista: rapina per depistare

L'orefice Giovanni «Gianni» Veronesi conosceva il suo assassino. E la modesta rapina messa a segno nel suo negozio-studio sembra semplicemente un depistaggio ideato dall'assassino per confondere le idee. I carabinieri del nucleo investigativo hanno sentito familiari, amici, conoscenti e clienti dell'orefice 74enne ucciso giovedì mattina nella sua piccola gioielleria di Brera, in via dell'Orso 3, al termine di una violenta colluttazione. E alcuni alibi, confrontati con celle telefoniche e le immagini di qualche telecamera, sembrano non tornare. Non è escluso quindi che l'assassino abbia le ore contate.
I risultati preliminari dell'autopsia, conclusasi ieri pomeriggio, non hanno stabilito con precisione l'ora del delitto: come si sa l'uomo ha aperto il negozio alle 10.30 ed è stato trovato in fin di vita dalla figlia Antonella poco dopo le 13. Quel che ha appurato, invece, è che l'omicida, «armato» di un oggetto forse arraffato per caso lì per lì (dalla gioielleria mancherebbe un soprammobile), ha infierito su Veronesi frantumandogli il cranio in ben 4 punti differenti, per poi sferrargli un quinto colpo, quello mortale, alla nuca. Il signor Gianni ha lottato prima di morire, come indicano le ferite sulle mani. Tuttavia i preziosi scomparsi dall'oreficeria sono pochi, non di grande valore e non inventariati. E se prima di andarsene, l'omicida ha avuto tutto il tempo di spaccare il circuito interno di telecamere (di cui conosceva l'esistenza) per portarsi via l'hard disc, perché non appropriarsi di un bottino ben più cospicuo?
Il morto era un commerciante di lungo corso, particolarmente cauto, deciso e, come tutti sanno, spiccio, senza peli sulla lingua. E pronto a reagire. Ormai prossimo a chiudere l'attività - da una vita comprava e vendeva gioielli antichi, anche da privati - davanti a uno sconosciuto Veronesi preferiva non aprire la porta del negozio, magari facendo segno dall'interno che era chiuso. Quindi, se è vero che il fascicolo aperto in procura parla di «omicidio e rapina», è altrettanto vero che il secondo reato potrebbe essere un semplice escamotage dell'assassino per «sgonfiare» il primo agli occhi di chi indaga.
Gli interrogativi sono ancora tanti. Gli investigatori si chiedono quale malvivente avrebbe rischiato addirittura il morto per mettere a segno, in pieno giorno, un colpo in una gioielleria non certamente nota per il grande valore dei preziosi in vendita e, tra l'altro, nel cuore di Milano e di Area C, quindi una zona dove le telecamere pullulano. Non certamente una banda organizzata, che fa sopralluoghi, con un basista. Un balordo travolto dall'impeto davanti alla reazione del signor Gianni? O piuttosto qualcuno che non voleva saldare un debito o, al contrario, pretendeva dal signor Gianni più denaro di quel che lui gli voleva dare per un monile antico? Il negozietto, «teatro» del delitto, se analizzato a fondo, può dire molto in questo senso. Veronesi non faceva entrare più di una persona per volta, se non in casi eccezionali. Spesso riceveva su appuntamento, anche per delle semplici riparazioni. E, a detta dei suoi famigliari, seguiva scrupolosamente una sorta di formalità professionale: apriva la porta ai clienti sempre e solo in giacca. Il poveretto, invece, è stato trovato in maniche di camicia. Un dettaglio che potrebbe dire molto: l'orefice di Brera ha aperto a qualcuno che conosceva e di cui si fidava o, comunque, con il quale aveva confidenza e, probabilmente, non temeva.

Se poi, una volta all'interno, per ragioni ancora sconosciute, sia scoppiata una discussione dai toni accesi, se Gianni Veronesi - un tipo che, forte della sua cintura nera di judo e di un bel «caratterino», non si lasciava certo intimorire - abbia cercato di allontanare il suo interlocutore in malo modo e ne sia nata una violenta colluttazione sfociata in quello che viene definito «omicidio d'impeto», è ancora tutto da dimostrare.

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