Innocente per l'accusa, la corte lo condanna

Perfino il procuratore generale sostiene la non colpevolezza, ma la Corte non cede

Un'aula di tribunale (foto di repertorio)
Un'aula di tribunale (foto di repertorio)

Tutto inutile. Persino il fatto che il procuratore generale, cosa mai vista, invece di accontentarsi delle carte andasse di persona, sul luogo del presunto delitto, per rendersi conto dei luoghi, della dinamica. E che lo stesso procuratore avesse spiegato alla Corte d'appello che il suo mestiere non è accusare, ma cercare la verità. La verità, aveva detto ieri mattina il procuratore generale Cuno Tarfusser ai giudici e ai giurati, è che non c'è uno straccio di prova che ad uccidere il milanese Bruno Lazzerotti, affogato in mezzo metro d'acqua due anni fa in una roggia alla Certosa di Pavia, fosse stato il suo amico di una vita, Nicola Alfano. La sentenza che in primo grado aveva condannato Alfano a quindici anni per omicidio volontario, aveva detto Tarfusser, è solo una lunga serie di sillogismi, di ipotesi spacciate per certezze: «Ciò che emerge con chiarezza è che gli investigatori sin dall'inizio si sono innamorati della dinamica omicidiaria e per oltre un anno non hanno fatto altro che cercare conferma alla loro ipotesi di lavoro. Senza però trovarla». Il procuratore aveva concluso chiedendo l'annullamento della condanna. Non fu un assassinio, ma un semplice incidente stradale, per il quale aveva chiesto un anno di carcere.

Invece dopo una manciata di ore di camera di consiglio, la condanna viene confermata. E il «giallo» della Certosa diventa un caso di scuola su come la giustizia abbia metri elastici, soggettivi. Per cui le stesse prove che per un magistrato non esistono, per un altro dimostrano «aldilà di ogni ragionevole dubbio» che un uomo ne ha ammazzato un altro.

Erano amici da una vita, Alfano e Lazzerotti. Un rapporto su cui l'inchiesta ha scavato in modo un po' morboso: al punto che quando, dopo un anno dal fatto, Alfano venne chiuso in carcere, il pm tra gli elementi a suo carico scrisse anche che andava troppo spesso, e troppo addolorato, a trovare al cimitero la moglie dell'amico, morta qualche tempo prima. Ma poi, scrisse la Procura di Pavia, alla fine il movente è vile, economico: perché Lazzerotti nomina Alfano erede universale, ma poi conosce una ragazza, le propone (invano) di sposarla; l'amico si sente scaricato, a rischio di perdere l'eredità.

Tutto accade nei campi che portano a una fattoria, a ridosso del Naviglio Pavese. I due sono in auto, un passante li vede. Mezz'ora dopo, Alfano ferma un ciclista, chiede aiuto. L'auto è nella roggia, Lazzerotti è steso sulla sponda, morto. «È entrato un calabrone, ho perso il controllo, siamo finiti nella roggia - dirà sempre Alfano - Bruno è scivolato in acqua, io ho cercato di tirarlo fuori, ma gli sono caduto addosso. Poi l'ho tirato a riva e sono corso a chiedere aiuto». Per la procura di Pavia, la scena è diversa: i due fermano l'auto, scendono, litigano, Alfano butta l'amico in acqua e lo affoga. Poi butta anche l'auto per simulare un incidente.

L'autopsia dirà che per affogare a forza un uomo bisogna combattere, fargli male, lasciare segni che sul corpo di Lazzerotti non ci sono. Ma per la Corte d'assise di Pavia e ieri anche per la Corte d'appello di Milano, il dettaglio non sembra contare. Tra gli elementi a carico di Alfano, nell'ordinanza che lo spedì in carcere, c'era anche il fatto che non si fosse mai contraddetto: che anche a parenti e amici, nelle telefonate intercettate, desse la stessa versione data agli inquirenti.

Quando arriveranno le motivazioni, si saprà se anche i giudici d'appello l'hanno considerata una prova.

Se la Cassazione non sarà di diverso avviso, Alfano finirà in carcere per un delitto che secondo lo stesso magistrato che doveva accusarlo non ha mai commesso. Anche questa è la giustizia italiana.

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