«Meglio il Museo dei neri della Venere di Milo»

Il milanese che costruisce teche in tutto il mondo «Ho appena vissuto l'emozione più grande»

Sabrina Cottone

C'è uno strano segreto nella storia di Alessandro Goppion, l'uomo che partendo da Porta Genova ha costruito teche di vetro e piedistalli avveniristici per la Gioconda, la Venere di Milo, l'Uomo Vetruviano, la Pietà Rondanini, i gioielli della Corona inglese, solo per citare alcuni capolavori nei musei di mezzo mondo. Oggi che le sue casseforti invisibili sono a Washington, con vista sul Campidoglio, a custodire i cimeli del nuovo Smithsonian National Museum of African American History & Culture, il Museo dell'orgoglio afroamericano inaugurato sabato 24 settembre da Obama, sorprende scoprire che è arrivato dove non voleva andare.

Come ha convinto i musei di tutto il mondo a volere proprio i suoi vetri?

«Guardi, io studiavo Scienze politiche e mi piaceva la storia, sognavo una carriera diversa, ma non è stato possibile. Ho sostituito mio padre in azienda 35 anni fa».

Che cosa è successo?

«Eravamo nel pieno di una bufera: erano gli anni della crisi petrolifera, si passava da un mondo effervescente a uno buio. Ho dovuto farlo».

Non è entrato in crisi per aver dovuto abbandonare i suoi desideri per i doveri familiari?

«Sì, ma ho cercato di elaborare e ho messo tutta la mia passione per la storia rivolgendomi ai musei. In fondo non ci è mai dato di fare quel che vogliamo, ma di adeguare quel che ci tocca al nostro gusto, alle nostre priorità e capacità. Con passione».

Pensa che la passione sia il cuore di tutto?

«Le persone la percepiscono e ti offrono opportunità. Questo accade nel mondo normale, cioè gli Stati Uniti e il Nord Europa».

L'Italia non è un paese normale?

«In Italia vige una burocrazia opprimente, che rende costoso e complicato ciò che altrove è semplice».

Che differenze ci sono tra allestire la Pietà Rondanini in Italia e il Museo di Wahington?

«In Usa o in Gran Bretagna c'è il committment, l'impegno che deve essere mantenuto nei tempi e soprattutto nei costi, pena guai molto seri. Il resto sono tutte scartoffie. Invece questo è un Paese di furbi. Così non si rispettano i giovani: la loro passione ha diritto di essere educata».

Da chi è stata educata la sua passione?

«Ho avuto un esempio luminoso in mio padre, per come si impegnava e lavorava. E poi all'Università ho avuto professori capaci, mentori».

Bisogna sempre puntare al 10?

«Può anche non arrivare, ma l'importante è vivere in maniera profonda. Temo per questi ragazzi abbandonati a se stessi, leggevo degli scandali all'università denunciati in queste ore da Raffaele Cantone. Che possiamo fare in questo modo?».

Perché è così pessimista? In fondo lei ce l'ha fatta...

«Quarant'anni fa in Italia c'erano istituzioni molto importanti come l'Istituto centrale del restauro e l'Opificio pietre dure».

Mi risulta che esistano ancora.

«Ma se non hanno risorse e personale, ci sono solo come nome. Allora invece c'era gente meravigliosa, che aveva passione».

Per trasformare la passione in risultati serve il sostegno di una famiglia?

«Ho mia moglie Patrizia, molto brava, che lavora con me. Ho un figlio maschio di 24 anni che si sta preparando a entrare in azienda con gli studi adeguati. E anche una ragazzina di 15, ma lei per il momento la lasciamo in pace...».

Un segreto da rivelare ai giovani aspiranti imprenditori?

«Credo che in Italia non si possa più pensare di fare produzioni a basso prezzo. I costi sono tali che o si ammortizzano su prodotti molto specialistici o si è fuori dal mercato. Così posso produrre in loco».

Lei produce tutto in Italia?

«Faccio tutto in Lombardia, in laboratori sartoriali. Ho un controllo fisico sulle manifatture della Goppion».

Una scelta vincente per tutti?

«Se lei va dalla sarta, deve andare sotto casa. Se va a comprare un abito pronto, può arrivare da qualunque parte. Dovremmo immaginare produzioni che implicano la venuta da noi del cliente».

Meglio la Gioconda, la Venere di Milo o il Museo afroamericano di Washington?

«Decisamente meglio il Museo afroamericano. A me piacciono più le persone delle cose. Questo è un museo di persone, che testimoniano della loro vita passata ma anche presente. Ciò che sta accadendo a Charlotte mette la pelle d'oca».

Che cosa l'ha colpita di più del Museo afroamericano?

«La partecipazione popolare da tutti gli Stati Uniti di moltissimi neri. Il discorso di Obama, certo, molto bello, ma la cosa che mi ha colpito di più è stata la presenza di Bush, che ha avuto un ruolo importante nel percorso, con la moglie che ha continuato ad essere parte del board».

Avete realizzato le teche di oggetti inusuali per la sua azienda: maglie, scarpe, guantoni...

«La vetrina sportiva è un luogo importante, perché attraverso il baseball, soprattutto il pugilato ma con tutti gli sport popolari e di massa, grandissimi atleti hanno veicolato il contributo culturale della comunità afroamerica alla storia del Paese».

L'oggetto che l'ha commossa di più?

«L'abito con cui Rosa Parks stava lavorando al momento del suo arresto, dopo che si era seduta in autobus in un posto riservato ai

bianchi. Ci hanno affidato gli oggetti più preziosi dal punto di vista della conservazione: manoscritti, lettere e una rara copia del tredicesimo emendamento della Costituzione che nel segnò l'abolizione della schiavitù».

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