Cronaca locale

Milly, il fascino della Marlene dei milanesi

Milly, il fascino della Marlene dei milanesi

«Slarga fuori di qua, sbatti fuori di là» e Milano diventa «stracittà». Il meneghino, si sa, sorride sempre sulle metamorfosi della sua città. Cantieri, lavori in corso, sempre in coda, sempre di fretta. E nella canzone Stramilano finisce per confondere il Naviglio con il Po. Un potere di auto-suggestione necessario per guardare quella brutta città, che è la mia città, dove i cani, saltando sopra tubi, fanno la coda per far pipì sui muri di quelle che chiamano case. Così ironizzava Dario Fo, allora uno Jaques Tati de noialtri, sulle note di Fiorenzo Carpi. Eppure chi la lascia ci vorrebbe ritornare col cuore «en mann», come nella nostalgica canzonetta di Giovanni D'Anzi. Milly (al secolo Carla Mignone), celebre soubrette che la leggenda voleva ammirata dal principe Umberto di Savoia, passò dal varietà di provincia alle sfarzose riviste anteguerra, ai locali scintillanti di New York, per diventare negli anni sessanta la sofisticata Jenny delle Spelonche dell'Opera da tre soldi, sotto la guida del mito meneghino per antonomasia, Giorgio Strehler, nel tempio del «Piccolo». Sotto el Domm Milly giunse da Alessandria in trio coi fratelli Mitì e Toto. A lei è dedicato un cd delizioso, Milly per Milano (Hardy), in cui l'indimenticata signora della canzone intona filastrocche, serenate, e soprattutto canzoni, ispirate dall'allora capitale economica e morale del Belpaese. Non va dimenticato che un rilancio importante della sua carriera Milly lo ebbe con lo spettacolo di canzoni milanesi «Milanin Milanon», costruito da un maestro del genere, Filippo Crivelli, più volte replicato dal '62 al '76. Accanto a lei l'ironia veterana di Tino Carraro, impareggiabile lumacone, il «bauscia», e il giovanissimo, già stralunato e spiritosissimo, Enzo Jannacci. Che cantasse in italiano o in dialetto milanese, la sua dizione era limpida, l'emissione ben impostata, la voce penetrante. Aristocratica nella nostalgia come una Marlene nostrana, ma capace di improvvisi guizzi popolari. E un gusto infallibile: anche l'abusata «Innamorati a Milano», con un pizzico di ironia, con una leggera inflessione, e il tasso di zucchero non ci porta al diabete. La Milano che canta è sospesa fra tenebre e l'immancabile nebbione, dove il sole, il mare, i fiori, la luna non rimane che cercarli negli occhi del moroso. I giovanotti di cui si «innamora» Milly sono quasi sempre ceffi della mala, egoisti, che dan baci e mangiano noccioline. Il meglio è il Guggia, il torello di piazza Castell. Lo stesso capita alla «Donna che te durmivet» di Jannacci: gli amici di lui la sfottono al bar.
E l'amore, dopo un lustro? «El gh'è pü», non c'è più. Le donne fanno la vita sui bastioni o in piazza Vetra, dove la Rosetta ci rimette le penne. La città è la stessa di oggi: ma che differenza fra la questuante che era «alegra tucc i dì con due michette e tre polpett» del menestrello Della Mea, e gli attuali racket che hanno massificato in categorie merceologiche anche la carità. Nelle strade notturne il buio rendeva poetici luoghi che di giorno non lo sono, la via Broletto n. 34 di Endrigo.


La voce di Milly ritorna, come la speranza, e i milanesi sperano che la roeda la gira.

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