Per raccontare chi era Walter Mapelli, procuratore della Repubblica a Bergamo, morto ieri a sessantun anni compiuti da poco, è inevitabile fare un confronto: non tra uomini ma tra inchieste, e soprattutto sul modo di condurle. Quando iniziò a scavare in profondità sul vero «potere forte» bergamasco, ovvero Ubi Banca, Mapelli lo fece senza timori reverenziali: ma non immaginando che l'inchiesta lo avrebbe portato nel cuore del palazzo più alto della Repubblica, il Quirinale. Perché l'uomo-simbolo di Ubi, il bresciano Giovanni Bazoli, era legato da rapporti di fiducia stretta al Capo dello Stato: prima Giorgio Napolitano e poi Sergio Mattarella. Intercettando Bazoli, le microspie della Guardia di finanza intercettarono ripetutamente la voce del presidente della Repubblica. Allo stesso modo in cui, in Sicilia, l'inchiesta Stato-Mafia aveva lambito e intercettato il presidente Napolitano. Ma mentre le telefonate palermitane finivano immediatamente nel tritacarne del gossip, e c'è chi ancora oggi dubita che siano state davvero distrutte, di quelle realizzate su ordine di Mapelli non è uscita mai nè una virgola nè un riassunto. A finire agli atti furono solo quelle di Napolitano successive al suo ritorno al rango di comune cittadino.
Perché Mapelli - questa è la morale della storia - era un magistrato che rispettava le regole. Dovrebbe essere una banalità, un comune denominatore, ma purtroppo non è così.
Mapelli è stato invece la prova vivente che le regole si possono rispettare ed essere al tempo stesso magistrati duri e tosti. Aveva imparato ad esserlo appena entrato in magistratura, a metà degli anni Ottanta, quando era stato mandato come tirocinante in Procura a Milano; e aveva continuato ad esserlo approdando come sostituto procuratore a Monza. Nel capoluogo brianzolo, Mapelli trovò altri due giovani pm con cui avrebbe percorso un tratto di strada importante: Olindo Canali, un lissonese con le spalle quadrate e i baffoni neri, e subito dopo una ragazzona di Cremona alta e bionda, Alessandra Dolci. Fu il terzetto che diede vita al filone monzese di Tangentopoli, sulla scia della Mani Pulite milanese: con durezza, ma senza quegli eccessi che segnarono la storia del pool di Di Pietro. Tra le regole imparate da Mapelli, c'era quella impressa nelle aule: la legge è uguale per tutti. Per questo non ci pensò due volte - lui, da sempre iscritto a Magistratura Democratica - a infilare in profondità una indagine nel cuore del potere rosso a Sesto San Giovanni, incriminando l'uomo che per un ventennio ne aveva impersonato la continuità: Filippo Penati.
Penati alla fine venne assolto, e Mapelli
accettò il verdetto con serenità, convinto di avere fatto solo il suo dovere. Venne nominato procuratore a Bergamo, e lì ricominciò: attaccando Bazoli. Perché una magistratura che non fa le pulci al potere, che magistratura è?
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