Ma cosa c'è ancora da vedere di Ferdinando Scianna?
Di per sé, parecchio. Da vedere e rivedere. Le antiche foto delle feste religiose di Sicilia, ormai un classico. I ritratti. La serie dei bambini. I reportage dal mondo («Come fotografo mi considero un reporter. E come reporter il mio riferimento è Henri Cartier-Bresson, per il quale il fotografo deve ambire a essere un testimone invisibile, che mai interviene per modificare il mondo»). Le fotografie di moda (anche qui, più trovate che costruite). Quelle dei paesaggi, dei riti e dei miti. Quelle di viaggio: dalle Ande all'India. Le fotografie delle ossessioni, «che ogni fotografo può e deve avere»: specchi, ombre, animali... E una sezione, con molti inediti, dedicata a Leonardo Sciascia. «Lo conobbi che avevo vent'anni: è stata la persona chiave della mia vita».
E allora, per vedere e rivedere le fotografie e le ossessioni di Ferdinando Scianna, ecco la sua «mostra delle mostre» che si apre oggi a Palazzo Reale a Milano, Viaggio, Racconto, Memoria (fino al 5 giugno, a cura di Denis Curti e Paola Bergna): 220 fotografie in bianco e nero, 24 sezioni e sessant'anni di lavoro, da quando Ferdinando Scianna, ventenne, volle fare il fotografo nella sua Bagheria, Palermo, fino a oggi, passando dalla città di Milano, dove arrivò nel 1967 («Dalla Sicilia non si va via, si fugge»), i dieci anni a Parigi come corrispondente dell'Europeo, quelli alla Magnum - dal 1982, primo fotografo italiano a entrare nella leggendaria agenzia - i 70 libri pubblicati e le centinaia di mostre realizzate. Fino a questa.
Eccolo arrivare. L'inaugurazione è il suo personalissimo palcoscenico. Scianna ha imparato ad amare Milano, e Milano si è lentamente innamorata di lui. La mostra a Palazzo Reale - non l'ultima, ma la definitiva - è un incredibile regalo. Reciproco.
Settantotto anni abbondanti, rigida inflessione palermitana nonostante abbia vissuto più anni al Nord che nell'Isola, giacca rossa di panno delle grandi occasioni, la stessa antiretorica di sempre - «Non chiamatemi Maestro» - e una convinzione incrollabile: che le fotografie siano la sua vita. E incidentalmente raccontano la nostra. Tra città, guerre, moda, donne e un'idea del mondo «che negli ultimi quarant'anni è cambiata più che nei precedenti duemila». Viaggio. Racconto. Memoria.
Cose da segnalare della mostra. La sala introduttiva con uno «scaffale» di oltre 40 libri fotografici selezionati fra i più belli di Scianna («Forse è la parte di cui vado più orgoglioso»). La sezione dedicata ai ritratti di Sciascia, allestita come una antica quadreria, tutta in rosso: Sciascia nella casa di famiglia della Nuci, Sciascia ai fornelli a Racalmuto nel '77, Sciascia che raccoglie le amarene in campagna con Gesualdo Bufalino nell'87, Sciascia e Scianna fotografati da Henri Cartier-Bresson a Palermo, nel 1986... E soprattutto il racconto che Scianna fa di sé e del suo lavoro nell'audioguida registrata per l'occasione, a partire dal ricordo di quando disse a suo padre che voleva fare il fotografo, nella Bagheria dei primi anni Sessanta: «Che mestiere è?, mi chiese atterrito. Uno che ammazza i vivi e resuscita i morti, commentò, ricordandosi dell'unico fotografo del paese, che si chiamava Coglitore, uno il cui lavoro principale - poiché le persone anziane all'epoca non volevano mai farsi fare un ritratto - era fotografare i cadaveri per avere un'immagine da mettere sulla tomba.
Quel Coglitore era diventato così bravo a ritoccare il negativo in corrispondenza degli occhi per farli sembrare ancora aperti, che dopo ognuna di queste speciali resurrezioni fotografiche commentava orgoglioso: Non pare vivo?. Il suo guaio era che anche quando fotografava i vivi, questi sembravano morti... Da qui le paure di mio padre».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.