Giacomo Di Capua, assolto con formula piena in appello insieme al ministro Massimo Garavaglia e all'ex assessore Mario Mantovani, di cui all'epoca dei fatti era capo staff. Come ha vissuto la notizia?
«Quando l'ho avuta sono scoppiato in un pianto fragoroso di 10 minuti che significava 6 anni in un giorno. Ieri non ho dormito bene ma ho rielaborato il tutto. La cosa bella è che non ho rancore né rabbia. Sono contento per la mia famiglia, per gli amici, ringrazio il mio avvocato Giampiero Chiodo. Sono sereno, non sono arrabbiato con chi mi ha voluto male, sono soltanto felice».
Lo è stato, arrabbiato?
«Lo sono stato, sì. All'inizio è stato un processo duro, aspro. Nella seconda parte è cambiato e anche in me è prevalsa la lucidità, un lavoro di attenzione nel cercare spazi per la difesa, per la nostra ricostruzione, che poi è risultata quella aderente alla realtà».
«Ero sicuro» si dice in genere. E lei?
«Ci sono stati momenti di sconforto ma l'appello è stato equilibrato. Questo ha alimentato la mia speranza. Credevo in questo risultato, anche se ero preparato alla delusione».
Chi le ha «voluto male», ha detto. Cosa intende?
«Non provo rancore per chi ha causato o strumentalizzato questa vicenda».
Gli avversari politici hanno portato arance a Palazzo Lombardia.
«Io ho subito un trattamento meno violento in questo senso, come ora, un clamore mediatico decisamente inferiore per il mio ruolo e la mia personalità. Sono un tecnico, non mi interessava la prima fila».
Ma aveva ambizioni politiche, forse non più.
«Le avevo, come molti, progressivamente sopite ormai. Lo considero un piccolo danno collaterale. La difficoltà vera è stata tenere insieme la famiglia, gli amici, convincerli, accompagnare i figli a scuola testa alta, lavorare con uno zaino pieno di pensieri sulla testa, parlare con la mia famiglia, coi miei genitori».
Vuole raccontarcelo?
«In carcere i miei genitori mi hanno abbracciato come si abbraccia un figlio in difficoltà, umanamente mi hanno garantito pieno sostegno, ma io vengo da una famiglia molto rigida, molto dignitosa, e quindi da subito hanno detto che prima di esprimere un giudizio avrebbero voluto capire».
Capire di più.
«Io ho giurato loro di non aver fatto nulla di fuori luogo, di essermi sempre comportato secondo buon senso, e dopo alcune settimane, quando l'avvocato ha messo a disposizione il materiale, mio padre ne ha chiesto copia, l'ha studiato poi è venuto a casa mia, da Spezia alla provincia di Vercelli, col permesso del gip perché ero ai domiciliari, e mi ha detto: Ho studiato, sei innocente. Quello era il tribunale più rigido, il più duro. Lì ho capito che potevo farcela, è stato un momento decisivo, di svolta».
Un passaggio decisivo in anni molto duri.
«Il mio talento naturale per così dire, non la mia bravura, è stato trovare la forza e l'equilibrio di viverli senza uno psicofarmaco, senza una pillola. Sconforto sì, pianto, poi impegno, costanza fatica».
Suo figlio era appena nato quando è stato arrestato.
«La grande aveva due anni e il piccolo 20 giorni quel giorno in cui alle 6 mi hanno notificato il provvedimento portandomi in carcere».
Quanto è stato in carcere?
«A San Vittore 21 giorni, poi domiciliari fino ai 6 mesi consentiti. Sono stato licenziato subito dalla Regione, di cui ero un dipendente, la banca mi ha notificato la chiusura unilaterale del conto e la vendita in perdita di alcune azioni, c'è una clausolina. Ho preso un'indennità di disoccupazione per 18 mesi, sono passato dall'auto di servizio alla coda all'Inps, con dignità credo, ma è un bel salto dal 30° piano del Palazzo al seminterrato di San Vittore. Un trauma».
Cosa pensa della giustizia?
«Quando studi pare farraginosa, complicata, quando la vivi cogli le sfumature e la lungimiranza di quei gradi di giudizio previsti per compensare gli errori. Come spiegare l'amore per i figli, difficile farlo in astratto. Così la giustizia, la capisci se la vivi».
E ora? Si sente più forte o più fragile?
«Mi sento più forte.
Ma quello zaino pieno di pensieri devo svuotarlo a poco a poco. Credo di poter assaporare più di ieri ogni gioia della vita. Credo di farcela, credo che la ricorderò come una pagina. La prova riservata dal mio destino, forse, poteva essere peggiore».
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