Il papà e il campione: Giacinto Facchetti raccontato dal figlio

Il papà e il campione: Giacinto Facchetti raccontato dal figlio

«In un attimo il Gigante di Treviglio si trovò da solo in volata davanti al portiere e al destino, il tiro che il suo piede destro scagliò arrivò al bersaglio senza possibilità di resistenza. Miracolo a Milano, al Liverpool tre reti dell'Inter e della folla titolava la Gazzetta dello Sport». Era il 12 maggio 1965 (semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni) «una data che restò accesa nella nebbia del tempo andato e che consacrò il mito della Grande Inter». È il figlio del Gigante Facchetti a parlarci oggi del suo papà. Nel libro «Se no che gente saremmo» edito da Longanesi che in questi giorni è riproposto per Tea (180 pag, 8 euro), Gianfelice ripercorre le gesta del campione, fa pulsare il cuore del calcio con la sua adrenalina e i suoi lati oscuri, come calciopoli e ritrae il volto di un uomo, marito e padre di quattro figli, che «la notte di Natale gira attorno alla casa di nascosto suonando il campanaccio e inscenando dolcemente l'illusione per tutti noi». La trama pubblica e quella privata, intrecciate. Viste con gli occhi di un figlio che cerca il papà, come Pinocchio («ho incontrato spesso mio padre dove non me l'aspettavo» e «si è sempre orfani quando si perde un genitore anche a 30 anni») fino alla malattia, un cancro aggressivo che se l'è portato via in quattro mesi, all'età di 64 anni. Si scopre che il momento di gioia, quel «12 maggio che la memoria salvava tra i suoi istanti più felici» è diventato, 41 anni dopo, la data dell'ingresso in ospedale, l'inizio della sua sofferenza. «La vita fa il suo giro anche così - scrive Gianfelice - tra una galoppata libera dentro uno stadio e uno stop brusco in pronto soccorso». E toccò a lui celebrare il centenario dell'Inter, nel marzo 2008, sprofondato nell'erba dello stadio Meazza affollato e illuminato da stelline blu. Lui, figlio di un terzino, spronato fin da piccolo ad «allenarsi tutti i giorni» aveva provato fino ai 20 anni a parare i gol ma, niente da fare, «ero troppo perfezionista a quell'età, i gol che subivo mi pesavano nonostante papà ripetesse che dovevo lasciarmi alle spalle ogni pallone andato». Trovando la sua strada di uomo adulto, Gianfelice, ha trovato anche il suo papà. «Fu il teatro, anni dopo, a mettere a posto parecchie cose tra noi. In quella tenacia verso la vita che voleva tirassi fuori col pallone ci assomigliavamo più di quanto credessimo». Nelle pagine scorrono testimonianze di chi lo ha conosciuto, da Gianni Brera a Candido Cannavò, da Herrera a Bearzot. Facchetti giocava per vincere, era un terzino bravo a difendere e a segnare e un compagno di squadra capace di passare la palla. Silenzioso e riservato, ripeteva che «il gioco è una cosa seria». Gianfelice non tace delle ingiurie subite quando suo padre non poteva più difendersi ed era stato trascinato nello scandalo del «mondo pallonaro». Ce le presenta con l'ardore ostinato di «chi vuole mettere le cose a posto», proteggerne il ricordo pur in mezzo a minacce telefoniche e aule di tribunale.

La conclusione a cui giunge, però, cambia la prospettiva: «Avevo capito che papà stava già al sicuro e a me sarebbe spettato il compito di ritrovare le storie che vale la pena raccontare».
Presentazioni: oggi alla biblioteca Orlandi di San Donato milanese, ore 21. Domani ore 20.30, Aula Magna dell'Istituto tumori, via Venezian.

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