Passarotto: «Ci resta lo spirito dei tempi d'oro»

«Senza soldi addio alla serie A e al grande pubblico. Come quando all'Arena battemmo Cuba...»

Sergio Arcobelli

Per vent'anni e oltre 400 partite ha calcato i diamanti di tutta Italia indossando la gloriosa maglia del Milano Baseball 46, il club ambrosiano che tra gli anni '60 e '70 fu capace di fare incetta di scudetti. Nell'attesa che i rossoblù, in grado di recente di conquistare la promozione in Serie B, tornino a vestire i panni della squadra egemone di un tempo, ripercorriamo insieme a Carlo Passarotto, entrato nella Hall of Fame del baseball tricolore, la sua storia e quella del Milano.

Carlo Passarotto, una lunga carriera sui campi di baseball. Più le soddisfazioni o le delusioni?

«Più le soddisfazioni, certo. E il baseball non lascia rimorsi».

Lei arrivò a Milano solo nel '70 ma ben presto diventò un beniamino del pubblico. Per via dei suoi baffi?

(ride) «Non credo che sia per quello. Quando sono arrivato a Milano, il gruppo dell'Europhon era incredibilmente forte, forse i più forti in Europa. E in quell'anno abbiamo battuto i cubani all'Arena. Era una squadra fantastica: anche tutti i miei compagni erano apprezzati dal pubblico del Kennedy che era sempre pieno».

A differenza di adesso

«Allora era pieno il Kennedy così come piena era l'Arena quando abbiamo giocato contro i cubani. Una cosa incredibile. Adesso vedere così poca gente fa venire il magone».

Dopo gli anni '70 il declino.

«Come in tutti gli sport, da padrone la fanno i soldi e quindi gli sponsor. Quando una squadra come il Milano perse uno sponsor come l'Europhon, con gli sponsor piccoli non c'erano le possibilità economiche tali da poter mantenere un gruppo forte. Poi quando sono mancati i soldi la squadra si è autoretrocessa in serie B».

Lei ha 70 presenze in Nazionale, con cui ha segnato il primo storico punto dell'Italia contro gli Stati Uniti. Cosa ha provato in quella corsa verso casa base?

«Ammetto di essere stato fortunato a ritrovarmi lì. In quel momento non pensavo proprio a niente. Volevo solo arrivare il prima possibile per non essere eliminato!».

Di quel Milano vincente cos'è rimasto?

«Noi giocatori del Milano, che siamo vecchietti, ma tutti gli anni ci ritroviamo a cena. Abbiamo sempre mantenuto questo tipo di rapporto, bello, goliardico.

Come ai bei tempi, quando ci si ritrovava la sera all'angolo tra via Teodosio e via Porpora. Lì c'era il bar della zia di Angelo Novali, il nostro capitano. Si mangiava un gelato e si parlava delle partite. E, ovviamente, anche di donne».

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