di Carlo Maria Lomartire
«È stato un premio anche al modo in cui stiamo governando la città». Con azzardate espressioni di questo tipo e grazie a una notevole dose di disinvoltura, il sindaco Giuliano Pisapia ha voluto accreditarsi il successo del Pd a Milano. Poi si è ricordato che il suo partito in realtà è il vendoliano Sel, confluito nella Lista Tsipras, e quindi si è affrettato a rendere omaggio anche alla sinistra cachemir e sirtaki. Ma il Pd ricorda benissimo la provenienza politica di Pisapia e il modo in cui è stato scelto a sinistra come candidato sindaco di Milano, perciò soprattutto il Pd renziano non sembra affatto disposto a condividere questa generosa ripartizione dei meriti. E dunque da Stafano Boeri - ex assessore alla Cultura messo alla porta da Pisapia in malo modo e oggi esponente milanese più in vista del renzismo oltre a consulente della giunta del neo sindaco fiorentino Nardella - fino al vice presidente del Consiglio provinciale Roberto Caputo, passando attraverso un discreto numero di consiglieri comunali e perfino qualche anonimo assessore, una buona parte della dirigenza democrat si chiede per quale motivo il sindaco di una Milano che ha dato il 44% dei voti al Pd debba provenire da un altro partito. In realtà la storia comincia con il primo duello Pisapia-Boeri. Nella primavera del 2011, in vista della scadenza del mandato di Letizia Moratti, il Pd milanese è da lungo tempo in profonda crisi di identità e fatica a trovare un candidato credibile da contrapporre al sindaco uscente. Alla sua sinistra intanto si muovono ex socialisti, ambientalisti, comitati vari e cani sciolti che, con l'appoggio di poteri finanziari ed editoriali, si inventano la candidatura Pisapia. Un Pd, ormai quasi in preda al panico, risponde con un'archistar, Stefano Boeri. Si va, dunque, alle primarie per scegliere il candidato unico della sinistra e, come spesso capita da quelle parti, grazie anche ad una maggiore partecipazione prevale l'anima più radicale e movimentista: vince Pisapia. Che non era il candidato del Pd. Perciò questa storia non è mai andata giù alla base del partito, il cui elettorato non fa nulla per nascondere la delusione per il modo in cui Milano viene amministrata. Perciò ora è legittimo aspettarsi che il nuovo Pd renziano, meno timido e formalista, voglia regolare i conti. In troppe occasioni quel partito ha rinunciato a candidare per Palazzo Marino suoi qualificati dirigenti, lasciando migrare a Roma figure come, ad esempio, Emanuele Fiano o Marilena Adamo, per tentare con ex sindacalisti, ex prefetti e orfani di eroi, sempre con esiti disastrosi. Quella stagione potrebbe essere finita e il Pd potrebbe non lasciarsi sfuggire la prima occasione per prendersi - ma stavolta in proprio Palazzo Marino. Occasione forse non lontana se si guarda verso via Solferino. Fin dalla prima candidatura di Letizia Moratti influenti personalità della sinistra chic milanese, i cosiddetti «salotti», chiesero a Ferruccio de Bortoli di candidarsi. Avrebbe avuto buone possibilità di successo ma ha sempre detto no. Che oggi, anche grazie alle sue simpatie renziane, potrebbe accettare, stando alle voci ricorrenti che danno per prossime le sue dimissioni dal Corriere della Sera. In quel caso pur di non farsi sfuggire una candidatura così forte e prestigiosa, il Pd potrebbe decidere di non aspettare la scadenza naturale del mandato nel 2016, convincendo Pisapia a lasciare prima.
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