Forse non tutti sanno che a Milano, in via Macedonio Melloni sì, proprio in quella via che associamo a tante nascite dei nostri bambini è stato avviato il primo istituto in Europa per la custodia attenuata di madri detenute con prole. Si chiama Icam e da otto anni, grazie ad un accordo tra il ministero di Giustizia, la regione e la provincia e il comune di Milano, sta sperimentando una via alternativa alle rigide regole della detenzione.
Perché rafforzare il rapporto di queste madri con i loro figli, specie piccoli, restituisce loro autostima, voglia di rimettersi in gioco, di capire gli errori commessi, di rialzarsi dopo la caduta.
Si fanno progetto speciali all'Icam, progetti come quello ora in mostra allo Spazio Oberdan dove con le sue «Impronte Sfiorate» l'artista Paola Michela Mineo 36enne di Rho, studi in Grecia, una passione per la scultura e il calco e per le installazioni multimediali che l'hanno fatta apprezzare dai critici - ha trasformato le detenute in performer d'eccezione.
Fino al 5 ottobre l'esposizione, curata da Marco Testa e realizzata in collaborazione con la provincia di Milano, mostra sei intense installazioni interattive composte di piccole sculture, calchi, video, foto ma anche odori, suoni e suggestioni. Obiettivo: far entrare il visitatore nella pelle, nei corpi di queste madri.
L'artista ha lavorato per due anni accanto ad alcune detenute dell'Icam, ne conosce in profondità le storie (le pene, intime e giudiziarie), le ha viste quando interagiscono e giocano e coccolano i loro figli, ha ascoltato le loro angosce, la paura per il futuro.
Soprattutto, si è avvicinata ai loro corpi di cui ha fatto dei calchi parziali: ora il seno, ora il volto, ora una pancia gravida. Le detenute sono diventate modelle per sculture che, al tempo stesso, sono ricordo e memoria delle forme fisiche di queste donne e in mostra diventano una «seconda pelle» che il visitatore può indossare.
Mineo chiama questo suo modo di scolpire una tecnica che coinvolge tutti e cinque i sensi perché ogni calco è accompagnato anche da documenti, immagini, suoni e odori «touchArt».
Definire questo processo arte-terapia non sarebbe corretto, sebbene siano innegabili le benefiche ricadute del progetto artistico sulle detenute che vi hanno partecipato: al solito l'arte, in uno spazio a metà tra razionale e irrazionale, e soprattutto in casi di performance così complesse, riesce a smuovere anche i terreni più paludosi, come possono essere le vite sospese, tra ansia e desiderio di futuro, di donne prigioniere i cui figli rappresentano una finestra sul mondo, la speranza del riscatto.
A noi che entriamo negli spazi espositivi all'Oberdan queste installazioni tolgono il fiato: intense e dolenti, ci ricordano un mondo, quello della detenzione, del male, della mancanza di libertà, che troppo spesso rimuoviamo dalle nostre vite.
E allora serve coraggio non solo per realizzare ma anche per visitare una mostra così. Struggente e bellissima.
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