Matteo SacchiEra una bella giornata di sole invernale di esattamente cento anni fa. E fu proprio il sole, il cielo terso a permettere l'incursione. Fu in primo luogo «Quel Cielo di Lombardia, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace» a consentire il primo bombardamento aereo della storia di Milano, in assoluto uno dei primi bombardamenti terroristici, sui civili, della storia. Diversamente sarebbe stato impossibile per i lenti e goffi Aviatik Taube, capaci a stento di raggiungere i cento all'ora, volteggiare sui cieli della città con quelle loro grandi ali, così simili a quelle degli uccelli e quella loro lunga coda da rondini che presto i progressi dell'aviotecnica avrebbero reso obsolete, quasi ridicole.Ma quel giorno, complice la sorpresa e l'impreparazione, la buffa sagoma di queste gigantesche colombe (taube in tedesco) costò ai milanesi dodici morti e una quarantina di feriti, e altri ve ne furono a Monza che fu colpita quasi contemporaneamente. Cifre tremende per l'epoca, lo sdegno per l'attacco di civili raggiunse anche gli Usa dove ne scrisse il New York times. Cifre che sono solo un piccolo presagio di cosa sarebbe diventato da lì a pochi anni il bombardamento di massa (e di nuovo i milanesi lo scoprirono sulla loro pelle).Veniamo però ai fatti, nel ricostruirli ci aiutano i giornali dell'epoca, in primis il Corriere che si mobilitarono immediatamente per documentare un atto considerato, così l'articolista del Corsera, «Sfogo di ferocia, antica predilezione absburghese per la morte degl'innocenti».La mattina di quel 14 febbraio 1916, era un lunedì, la città si svegliò come al solito. Si era in guerra ma i milanesi pensavano di non avere nulla da temere, si era al più in ansia per i mariti, i figli, i fratelli al fronte. La situazione dopo le spallate inutili dell'Isonzo stagnava, ma non si era ancora al contrattacco austriaco della Strafexpedition che avrebbe preso corpo a primavera. Poi alle 8 e 30, quando la città aveva già ampiamente preso vita, tra lo sferragliare dei tram e il rombo, per nulla catalitico, di primordiali automobili, il primo allarme raggiunse il comando cittadino. In un paesino del bresciano qualcuno localizzo tre velivoli con le insegne nemiche («portavano sotto le ali una grande croce nera») diretti verso Milano.Venne data l'allarme al campo di volo di Taliedo. Ora il nome ai più non dirà nulla ma fu uno dei primi aeroporti d'Italia e l'unico aeroporto di Milano sino agli anni '30. Era collocato vicino a quella che ora si chiama Piazza Ovidio e collegato alla città con il tram 35 e questo spiega gli attuali eleganti loft post industriali della zona (collocati in quelle che allora erano hangar e fabbriche d'aviazione d'avanguardia). Si alzarono in fretta e furia aerei tricolori nel tentativo di affrontare il nemico. Iniziò un rimpiattino mortale tra gli italiani e i due Taube arrivati sulla città. Il terzo aveva deviato e stava sganciando i suoi ordigni su Monza.Da terra, nel frattempo, era iniziato un fuoco antiaereo improvvisato. Nessuno però avvisò la popolazione. Su questo le fonti dell'epoca sono concordi. Così la maggior parte dei milanesi si mise ferma, col naso all'insù, a guardare le nuvolette del tiro anti aereo. Uno sbaglio mortale. Molte donne si affacciarono addirittura dai balconi. I Taube avevano un bersaglio militare? Forse i nodi ferroviari. Di certo il fuoco da terra li obbligò a tenersi molto alti.Finita la sorpresa la loro unica possibilità era sfuggire all'inseguimento e girare a casaccio sopra la città. I piloti decisero di sganciare comunque le loro bombe (ammesso che non fosse il loro piano originario), a casaccio. Erano con buona certezza piccoli ordigni che si buttavano a mano fuori dal velivolo. E paradossalmente queste piccole esplosioni, nel baillame, della battaglia non facevano abbastanza rumore per convincere, chi ne era lontano, della loro pericolosità. Una bomba cadde vicino ad un tram che stava percorrendo la circonvallazione. Binario distrutto, tram danneggiato, due passanti uccisi e anche due tranvieri: Siro Maccabruni e Giuseppe Brusamolini. Un'altra finì in mezzo a un gruppo di operai uccidendone uno. Un povero edicolante venne fatto a pezzi all'interno della sua edicola. Un grappolo di ordigni finì fuori Porta Romana: altri morti tra cui anche un bambino Pietro Vitali. Alle 9 e 30 in cielo era tutto finito, gli aeroplani austriaci trovarono la via per allontanarsi dalla città esaurito il loro carico bellico.In città invece alla Guardia medica di via Paolo Sarpi si lavorava alacremente per salvare i feriti (molti colpiti dai frammenti dei vetri delle finestre che nessuno aveva pensato di schermare). Poi, come sempre accade, partì il giro di visite delle autorità: in quel caso il sindaco Caldara (socialista e avvocato di grido) l'onorevole Giuseppe De Capitani (avvocato e liberale) e l'onorevole Claudio Treves (socialista, aveva da pochi mesi sfidato a duello Mussolini, riportando svariate ferite ma tenendo botta, per sei assalti, al più giovane Benito e ferendolo all'orecchio). Si cercò da subito di coordinare un miglior sistema di allarme, che fu affidato ai pompieri. Si decise che in caso d'attacco andavano fermati i tram, troppo facile bersaglio. Si gioì alla notizia che uno degli aerei che avevano colpito la città fosse stato abbattuto vicino alle Bocche di Cadria (in Trentino). E ancora si gioì per la vendetta, quando gli aerei italiani puntarono su Lubiana. Teoricamente per colpire obiettivi militari. Ma di nuovo le bombe finirono sui civili (di tecniche di bombardamento intelligente non si sarebbe parlato che a decenni di distanza) uccidendo un bambino. Tutti sapevano, generali compresi, che la guerra non la si sarebbe vinta o persa così. Con queste stragi dimostrative.
Rimasero episodi sporadici, al limite tecnico degli aerei dell'epoca e militarmente irrilevanti. Il seme della distruzione delle grandi città però era stato ormai gettato. A partire da Milano. Gettato da un aereo a forma di colomba. @matteosacchi2- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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