Via Savona? È la moda Ma le sfilate traslocano

A fine Ottocento la Riva Calzoni fabbricava le turbine Oggi, al posto delle tute blu, ci sono modelle e stilisti

Le tenebre sapevano di insidia. Erano intrise del sapore agro del rischio. Il silenzio avvolgeva il buio. I passi risuonavano, sordi e soli, sul selciato. Perfino la luce, fioca e triste, aveva paura ad avventurarvisi. E così, timida, di tanto in tanto, ballava. Baluginava da lampioni bugiardi. Lasciando che fosse l'oscurità ad avere la meglio. A prevalere. Su tutto. E tutti. Era un deserto cupo. Diffidente. Preda della nebbia. Un nulla. Simulacro vuoto di un sè stesso diurno. Fatto di catene di montaggio. E pullulare di operai. Giorni meccanici. Come i loro gesti che si ripetevano uguali. Intrisi di grigio.

Via Savona era periferia di vite. Un boccone di città, che città non era. Isolata. Separata. Divisa. Laggiù, oltre la ferrovia. Porta Genova da un lato. Lo scalo bestiame Solari dall'altro. A pochi metri da lì, si entrava in fabbrica. Un giovane, rampante e baffuto, dall'occhio sveglio e il piglio di chi vuol fare i danee , aveva scelto proprio quel rione. Era il 1884 e Alberto Riva si costruì il suo stabilimento al 58. Fabbricava turbine e ci aveva messo accanto pure una fonderia. Nel Novecento, quando l'azienda si associò alla Calzoni, non si spostò di un millimetro. Di giorno era trambusto. La notte era una terra di nessuno.

Quel mozzicone di strada, al di qua di via Stendhal, era proto industria. Oltre l'incrocio s'allungava nei campi. Via delle foppette, che la incrocia a ridosso di viale Troya, più che un nome è una spia. Con il suo tracciato curvilineo conduceva nei prati. Attorno al Lambro che, ad ogni pioggia straripava, creando pantani. In gergo, appunto, foppe. Da qui il toponimo, adottato anche per le cascine rurali che vi sorgevano. Tutto sparì d'incanto negli anni Venti quando le fattorie, che oggi - con un tratto un po' snob - si chiamerebbero agriturismi, fecero strada. E crollarono sotto le ruspe. In nome dell'asfalto. E di quella che sarebbe diventata la circonvallazione esterna.

Fino ad allora, un po' ovunque, prosperavano bottiglierie. I vecchi entravano sobri, uscivano con qualche moneta in meno nelle tasche e tanto sangue in più nelle vene, se è vero che il rosso aiuta. Una mano a briscola e un'altra a scopa. E battute in dialetto, unica lingua nota. Poi calavano le tenebre. E tornava il silenzio.

Eppure filtravano barlumi di allegria. Qualcosa di sconosciuto in via Savona. Era il 1914 e l'Italia non era ancora entrata in guerra, quando fu visto aprire un cinema. La Settima Arte era quasi maggiorenne e sul grande schermo approdavano film brevi. In bianco e nero. Muti. Anche il divertimento, insomma, taceva. O così almeno sembrava. L'avevano battezzata Sociale, la sala che rappresentava il solo baluardo dello svago, in quella zona di periferia. Fabbriche. E lavoro. Andò che dovette cambiare nome, perché i gestori non si erano accorti che un locale, con la stessa insegna e identica attività, era in funzione in via Garegliano al 10.

Finì che il Cinema Sociale di via Savona fu chiamato, con poca originalità, Savona. Ma ci vollero undici anni. Era il 1925 e, alle porte, stava il terremoto in celluloide. Arrivò il sonoro. Il locale fu tra i primi a convertirsi e, per una modesta sala nella città dimenticata, non era cosa dappoco. Nel buio silenzioso La cortigiana Greta Garbo si trovò a fare la prostituta in un bordello di Panama e Clark Gable, l'uomo del destino, la riscattò da una vita in saldo. Al cinema si andava con poche lire, allora. Ne bastavano due per i primi posti e una e dieci per i secondi. E si poteva fumare. Anche al Savona. Le civette annunciavano spettacoli per tutta la settimana e il week end, come capitò a Ferragosto del '32, si chiudeva con una comica dal vivo. Tanti applausi. E tutti di nuovo nel plumbeo tacer. Della strada, stavolta. Nel pieno della guerra - la seconda - divenne Bellini. E nel '45 l'insegna cambiò di nuovo. Per omaggiare l'Italia liberata scelse appunto Libertà, ma quattro anni dopo tornò al più rassicurante Savona. E tale rimase finché non chiuse. Era il '71 e urgevano restauri.

Riaprì dodici mesi dopo, con un nome nuovo. Mexico. In un quartiere vecchio, da dove la desolazione, lenta e pigra, mai aveva traslocato. Era una terza visione. Il rango più popolare. Ma sognava la rivoluzione. E fu politica con Z - L'orgia del potere . Dove Jean Louis Trintignant faceva l'avvocato per Costa Gavras e doveva smascherare assassini di Stato. Avevano ucciso il deputato d'opposizione Yves Montand. Una storia vera, raccontata per finta. Con i fantasmi di Easy rider . E Tony Curtis insieme a Jack Lemmon, travestiti per gioco. Inseguendo Marilyn fra le teatranti di A qualcuno piace caldo .

Al Mexico passarono tutti. Finché il crac finanziario non spense il proiettore e sulle pizze calò la polvere. A rilanciarlo dal fallimento fu Antonio Sancassani che, in avvio degli anni Ottanta, non ebbe paura a sfidare il buio e l'abbandono. Accanto alle industrie erano spuntati falansteri. Alveari popolari di alloggi a basso censo. C'era di tutto. Tranne l'eleganza. Ma quel giovane non s'impaurì. La salvezza veniva da un'intuizione. E dall'America. Così lontana da turbine e tute blu. Puntò sul musical. Riproiettò Woodstock . L'antimilitarismo di Hair . E Tommy , il campione di flipper cantato dagli Who. Il Mexico era pronto per il grande balzo. Sancassani lo compì nell'81. Imitò il Waverly theatre di New York che oggi si chiama Ifc center, ma fa niente. The rocky horror picture show era in cartellone da anni. Senza flessioni. Il Mexico fece lo stesso. Nacque il primo cast amatoriale e uno sconosciuto Claudio Bisio era Brad, il tipico ragazzo a stelle e strisce. Etero e insicuro. Preda sessuale di uno scienziato bizzarro che copiava Frankenstein. Lo yankee in via Savona ci restò diciotto mesi continuati. Ogni santa sera. E, dopo trenta e rotti anni, ogni venerdì è ancora lì. Il cinema è una delle cinque Rocky horror house ufficiali al mondo, 250mila spettatori hanno visto lo spettacolo e una cassa scoppiettante ha fatto comprare la sala a Sancassani.

Ma via Savona non è più l'umile deserto che fu. Il pubblico scopriva che erano fioriti ristoranti. Dal nulla. Sempre meno operai uscivano dalla Riva Calzoni, proprio di fronte. Poi smisero del tutto. E nello stabile a fianco, un giorno, da dietro una vetrata, si vide un cane accovacciato su una panchina. In un cortile. Ma era di pietra. Una scultura. La boutique di Ermenegildo Zegna. Al posto delle bottiglierie erano spuntati laboratori di tatuaggi. Le turbine hanno abdicato allo stile. Si mangia. Si beve. Ci si diverte. Il deserto ormai è un ricordo. Ma le sfilate hanno traslocato a Porta Nuova. Dalla zona della moda al quartiere di moda.

Da quartiere industriale a strada della moda. In via Savona convivono palazzi moderni, case d'epoca ed ex stabilimenti riconvertiti. Un segno dei tempi.

La zona malfrequentata di un tempo, raggiunta da molti ragazzi solo per andare al Mexico, tra il rischio di spiacevoli incontri notturni, oggi è il cuore di atelier e passerelle. Dove c'era la Riva Calzoni si trova «Women», uno studio di modelle. E pochi metri prima c'è la sede di Zegna. A fianco, prima Fay e poi Hogan.

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