Per quasi dieci anni le tre sorelle hanno subìto. Per avere uno stipendio, un posto e un permesso di soggiorno, non bastava lavorare duramente. Bisognava anche soggiacere alle pretese del principale. Infatti G.M., titolare della ditta, oggi 75enne, dalle sue operaie esigeva anche che si trasformassero in oggetti sessuali. É questo il contesto che ha portato il tribunale presieduto dal giudice Fabio Roia a emettere verso G.M. una condanna di inconsueta durezza, infliggendogli 10 anni di carcere. Nelle motivazioni depositate nei giorni scorsi, il giudice descrive l'imprenditore come un «lupo» e lo accusa di avere costruito in azienda «un clima di macelleria ambientale e relazionale». A G.M. il giudice attribuisce una «concezione quasi schiavista del ruolo della lavoratrice donna, sempre potenzialmente oggetto di attenzioni di tipo sessuale».
Le tre dipendenti, sorelle di origine sudamericana, solo nel 2011, dopo essersi licenziate, avevano trovato il coraggio di denunciare il datore di lavoro. Le accuse lanciate dalle donne erano apparse quasi inverosimili per la loro crudezza, ma le indagini hanno convinto prima la Procura e poi il giudice che la realtà fosse esattamente quella descritta dalle vittime.
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