«Dal Vajont all'Expo: ecco come ho domato una Babele di 54 Paesi»

Parla il «Bignoz», il geometra di 78 anni alla guida del cantiere «Anche 3mila camion al lavoro»

Si siede all'inizio del Decumano e gli brillano gli occhi mentre osserva il flusso infinito di persone che girano per i padiglioni del mondo. «A volte non mi sembra ancora vero». Romano Bignozzi, 78 anni, geometra in pensione (ma nessuno ci crede), ha lavorato alla diga del Vajont, alla diga turca sull'Eufrate, alla metropolitana di Caracas. Ed è ancora capace di stupirsi il Bignoz, come lo chiamano i suoi ragazzi, di fronte a un'Expo che brulica.

Dopo opere talmente grandi, costruire Expo sarà stato come mettere assieme dei mattoncini Lego.

«Eh sì, ma un Lego difficile e stimolante. Con troppe regole che si sono accavallate in pochi metri quadrati».

Un cantiere rompicapo? Troppi Paesi tutti assieme?

«Nella più totale anarchia. Ognuno con le sue normative, tutti che facevano di testa loro senza rispettare le regole italiane. Si figuri che abbiamo dovuto creare un ufficio con 15 persone per adattare i progetti architettonici alle nostre leggi. Ho dovuto gestire 54 Paesi, ognuno con 3-4 capi cantiere che ovviamente pensavano di aver campo libero».

Però è riuscito a gestire bene la baraonda. Non tutti, a fine lavori, ricevono lettere di ringraziamento firmate da tutti gli operai.

«Questa è la mia più grande soddisfazione. Questo cantiere è stato un trionfo. Nelle difficoltà sono riuscito a tenere unita la squadra».

Eppure gli scettici erano tanti. Si pensava che non fosse possibile finire tutto entro il primo maggio. Lei ne ha mai dubitato?

«Mai. Nemmeno quando, negli ultimi mesi, qui a Rho c'erano 3mila camion da gestire. Ho domato tutti, rogne comprese».

Ad esempio?

«I cluster hanno lasciato rifiuti di ogni tipo e ci abbiamo dovuto pensare noi. Ritagli di cartongesso, tubature, scarti. Negli ultimi dieci giorni abbiamo portato via 200 camion colmi di materiale da smaltire. E poi ci sono stati i danni provocati dai Paesi: nella più totale noncuranza hanno spaccato strade e caditoie. Abbiamo dovuto sistemare tutto all'ultimo momento. Altro che ritardi».

Il Paese più difficile da gestire?

«Abbiamo avuto qualche problema con la Corea. Nemmeno sapevano cosa fossero i collaudi e non ne volevano sapere di adeguarsi alle regole italiane».

Un esempio di buon lavoro?

«Forse la Polonia. A causa del caldo, i vetri del padiglione avevano bruciato tutto il giardino appena allestito. Sono stati incredibili, in cinque giorni hanno rifatto tutto».

Mai un giorno di malattia durante i cantieri. Ed ora la vedo ad Expo tutti i giorni, super operativo. C'è anche se solo un camion sfonda una grata.

«Ci sono alcune cose da mettere a posto ma sono bazzecole. Se avessi qualche factotum a mia disposizione sistemerei tutto in cinque giorni».

Expo ha retto sia all'impatto del maltempo, sia al flusso costante di gente.

«Abbiamo un'impiantistica idraulica ed elettrica ben strutturate. E poi le tubature sono separate tra loro. Se c'è un problema con l'acqua degli scarichi, non si intacca l'acqua per il riscaldamento».

Quindi su questi terreni ci si può costruire ben più di un Expo?

«Eccome. È tutto pronto per il dopo Expo».

Lei cosa spera di vedere al posto dei padiglioni?

«Se fossi Diana Bracco ci farei ricerca. Se fossi un grande distributore di cibo farei altrettanto. Si può realizzare un meraviglioso campus dove far confluire ricercatori di tutto il mondo e studenti, con una piattaforma di innovazione pazzesca».

La sua carriera si chiude qui o ha in mente già un'altra sfida?

«La mia vera sfida è quella contro me stesso. Devo dirmi: Romano, smettila, fermati».

Ma?

«Ma ho già ricevuto una bella richiesta per una galleria nel nord est Italia». Il Bignoz smette di parlare. Il pensiero per un attimo corre al suo dopo Expo.

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