Il ministro Cartabia lo ha mandato qui d'urgenza, tagliando i tempi lunghi delle burocrazia. Così Marcello Viola si è insediato ieri nella stanza che fu di Francesco Saverio Borrelli. Primo magistrato, dopo cinquant'anni (nel 1972 toccò a un altro siciliano, Giuseppe Micale) chiamato a reggere la Procura della Repubblica di Milano: che sarà pure stata, come rivendica Tiziana Siciliano, procuratore aggiunto, un «faro» per le Procure di tutta Italia. Ma oggi è un ufficio lacerato e stanco, squassato da episodi mai visti. Esattamente per questo Viola è stato mandato a Milano dal Consiglio superiore della magistratura. Proprio per questo qualcuno prima e dopo la nomina ha mugugnato. E per questo ieri Francesca Nanni, procuratore generale (anche lei una «forestiera») nel dare il benvenuto a Viola ammoniva i colleghi a «superare ogni tipo di campanilismo» e «a considerare le esperienze diverse dalle nostre come una eccezionale occasione di arricchimento». Chiaro, no?
Quando tocca a lui, Viola fa il suo discorso come di prammatica, ringrazia, saluta, si dichiara onorato eccetera. Però poi lancia una zampata che la dice lunga sul tipo di Procura, anzi di magistratura, che ha in mente: e sui tempi che si preparano al quarto piano del tribunale nei cinque anni del suo regno. Lo fa citando un magistrato morto da anni, Gabriele Chelazzi: se c'è un animale che deve rappresentare il giudice, dice Viola, «non è il leone né l'aquila. È il mulo». Ed è difficile non cogliere in questo metaforico elogio del lavoro duro e ostinato, anche un appello a diffidare dalle forme di vanità ed egocentrismo che tanti danni hanno fatto di recente.
Che modello concreto di Procura abbia in testa il «papa straniero» lo si vedrà presto. Lo accompagna da Firenze, dove era procuratore generale, una fama di dialogo, di efficienza, di durezza alla bisogna. Promette che la sua porta sarà «aperta a tutti» e sembra un messaggio rivolto ai pm qualunque, ai peones del lavoro quotidiano che in questi anni si sono sentiti emarginati dal cerchio magico che governava la Procura: e che però alla fine, con la loro rivolta, hanno messo fine ad un'epoca. Non ci saranno, manda a dire Marcello Viola, sostituti di seconda o terza fascia. E sull'unica questione che interessa davvero i cittadini, ovvero la linea della Procura nel combattere la criminalità, usa parole chiare: lavoreremo, dice, nel «rispetto dei diritti dell'imputato e soprattutto di quelli delle vittime». Quelle vittime che spesso nei dibattiti sulla giustizia vengono dimenticate.
Ad accoglierlo, presentandosi uno a uno, ci sono in prima fila i procuratori aggiunti. Sono il suo braccio operativo, i capi dei sette dipartimenti specializzati, ossatura della Procura. Tra loro c'è chi, come Maurizio Romanelli, è stato sconfitto proprio da Viola nella corsa alla guida della Procura e che ora potrebbe chiedere di lasciare Milano. C'è Fabio De Pasquale che dello scontro intorno al processo Eni è stato protagonista e che Milano rischia di doverla lasciare a breve per ordine del Csm, ma che ieri appariva e sereno e a suo agio accanto al nuovo capo. E poi tutti gli altri, compresa Alessandra Dolci, capo del pool antimafia: a cui il siciliano Viola, cresciuto alla scuola di Rocco Chinnici, amico di Paolo Borsellino, promette una attenzione particolare. La mafia che si infila e pervade, la «mafia fluida», la chiama il nuovo procuratore.
Non c'è, a sancire il passaggio di consegne, il capo uscente Francesco Greco,
stoppato a casa dal Covid. Aveva paventato che dietro l'arrivo di un «papa straniero» si preparasse la «normalizzazione della Procura di Milano, riducendola a occuparsi di inchieste da cronaca locale». Starà a Viola smentirlo.
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