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"Mio bisnonno il Vate, playboy che non lasciò mai la moglie"

Imprenditore, è il discendente del terzo figlio del poeta e racconta: "Era ossessionato dalle donne, ma senza dimenticare la famiglia"

"Mio bisnonno il Vate, playboy che non lasciò mai la moglie"

Sulla progenie, come emerge da una delle sue innumerevoli lettere, il «Vate» D'Annunzio aveva le idee chiare: «Un artista - scriveva - deve augurarsi che il suo spirito sia fecondo e la sua carne sterile». Non fu quello il caso del sommo poeta, che i propri geni li sparpagliò sul suolo italico tra figli legittimi e no. Ma intanto, ironia della sorte, oggi l'unico portatore accertato di quel Dna è il diretto discendente del terzogenito Veniero, proprio colui che il Vate credeva fosse il frutto del presunto adulterio da parte della devotissima consorte Maria Hardouin di Gallese. E invece. Federico D'Annunzio, cinquantaseienne imprenditore romano cresciuto a Milano, è la prova vivente di quella progenie dopo che, sei anni fa, si sottopose al test del Dna su invito del presidente del Vittoriale degli italiani Giordano Bruno Guerri. La sequenza molecolare, confrontata con quella prelevata dal liquido seminale intriso su un fazzoletto che il Vate aveva inviato all'amante Olga «Venturina» Brummer a corredo di una lettera amorosa, risultò all'esame del Ris praticamente identica. «Fu finalmente dimostrato che mio nonno Veniero era degno figlio di sangue di Gabriele - dice oggi Federico - oltre ad essere quello dei tre che stimava di più, come la Storia dimostra».

E pensare che quel corno presunto avrebbe ossessionato a tal punto il Poeta da ispirargli il romanzo «L'innocente», su cui Visconti fece anche un film, la triste storia di un figlio illegittimo, appunto. D'Annunzio era convinto che la moglie lo avesse tradito col senatore Vincenzo Morello Rastignac...

«Il mio bisnonno non poteva dare grandi lezioni di moralità, e comunque è dimostrato che si sbagliava. Detto questo, le lettere scritte alla moglie Maria e ai figli Mario, Gabriellino e Veniero, testimoniano che, al di là della condotta libertina, Gabriele era un padre di famiglia affettuoso e premuroso. Non sempre ripagato dalla condotta dei figli».

Si riferisce ai primi due, suppongo.

«Mario, il primogenito, era un cretino naturale; lo si evince dalle missive in cui il Vate lo descrive come un incapace continuamente incline a sperperare il denaro che chiedeva in prestito al padre, che pure gli aveva trovato un lavoro alla direzione generale della Navigazione Italiana. Dal 1922 non volle mai più riceverlo al Vittoriale. Gabriellino invece fu un artista mancato che, quando il padre smise di sovvenzionarlo, per guadagnare qualche soldo si mise a vendere manoscritti veri o falsi del Vate. Mio nonno Veniero, il presunto bastardo, era di tutt'altra stoffa: fece una brillante carriera come ingegnere meccanico alla Pirelli e poi come direttore tecnico nelle officine Caproni per l'aviazione militare».

Tra i due c'era un rapporto privilegiato: Veniero aiutò anche il padre in qualche sua impresa.

«Mio nonno era l'unico della famiglia che poteva presentarsi al Vittoriale senza appuntamento. Il suo apporto ingegneristico fu prezioso per il raid su Vienna del 1918 per cui furono necessari cinque mesi di prova e la costruzione di un serbatoio speciale creato proprio dalle Officine Caproni. Il mio bisnonno era un temerario, ma non un pazzo e si fidava molto del figlio».

Suo nonno era legatissimo alla madre al punto da chiedere al Poeta di vendergli Villa Mirabella, la foresteria del Vittoriale, per regalarla a Maria. D'Annunzio per dissuaderlo sparò un prezzo troppo alto...

«Così pare, ma in realtà la mia bisnonna visse ugualmente in quella villa perchè il Vate, nonostante le sue plurime infedeltà, nutriva e manifestava per lei una profonda gratitudine. Si erano tanto amati e si scrissero lettere tutta la vita».

Quando il Vate seppe della nascita di suo nonno Veniero, era a Venezia con Barbara Leoni, una delle sue muse più travolgenti, l'ispiratrice de «Il Piacere»...

«Barbara è stata la sua più grande passione, ma d'altra parte l'amore e il sesso erano per lui la molla del mondo, la scintilla che gli era necessaria anche per la sua produzione artistica. Però, lo ripeto, tutte le lettere e gli studi che ho compiuto dimostrano che »lui, anche da lontano, non si disinteressò mai della famiglia, sparsa tra Roma e Pescara».

Lei fa l'imprenditore e recentemente ha fondato una nuova impresa a prima vista temeraria: rivoluzionare il mondo del lavoro misurando l'etica delle aziende. È il Dna che salta fuori?

«Il nome dell'azienda è Transparent, un nome che è un programma perchè ho brevettato un sistema totalmente innovativo per certificare il grado di sostenibilità di un'azienda, ovvero i dati di ESG, l'Enviromental Social Governance che misura l'impatto su ambiente, società, rapporti con le altre aziende e dipendenti».

Sono temi su cui si discute molto. Qual è l'aspetto rivoluzionario?

«È l'utilizzo della tecnologia blockchain, la stessa modalità che sta alla base dei bitcoin, le monete virtuali. Applicata al business, permette di ottenere dati certi e incontrovertibili, utili ad esempio a smascherare la pratica del cosiddetto green washing, vale a dire quelle aziende che si ammantano di sostenibilità attraverso dichiarazioni mendaci».

Anche la sede dell'azienda è sui generis: un Palazzo del 700, il Casino de' Nobili nel centro storico di Pisa. Lei vive a Firenze, perchè ha scelto Pisa?

«Perchè è la Oxford italiana, una città che ha 90mila abitanti e 50mila studenti e che io voglio trasformare da capitale della conoscenza a capitale dell'innovazione, attirando e formando nuovi talenti. Ne ho già assunti una trentina. E ho completamente restaurato e digitalizzato questo palazzo magnifico dove fino all'800 si tenevano le grandi feste della nobiltà pisana, aprendolo anche al pubblico durante i weekend».

Ricorda di osare sempre, era uno dei motti del bisnonno. Ci pensa quando si tuffa nei suoi progetti?

«Non amo molto i motti di Gabriele, li considero datati. Però, se parliamo di Dna, riconosco forti similitudini nella creatività, nello spirito d'innovazione e nell'arditezza che sta in una certa mancanza di percezione del limite. D'altronde un imprenditore riesce a ottenere risultati soltanto se è un sognatore, dote a cui va associata una forte determinazione. In questo senso il Dna salta fuori».

Il cognome D'Annunzio le è stato più utile o più dannoso?

«Non l'ho mai utilizzato in alcun modo, anche perchè mi porto dentro il ricordo di mio padre, che si chiamava Gabriele come il nonno, e nella vita fu schiacciato da quest'eredità pesante. Essendomi da sempre dedicato alla tecnologia e non alle Lettere, il cognome non ha mai avuto alcun peso; appartengo a un altro mondo, però...».

Però?

«Molte volte mi sento vicino a lui per alcuni tratti dell'indole, per l'estrema sensibilità che trasuda dai suoi scritti e che mi si è attaccata addosso come una maledizione. Questi tratti del carattere un po' dolorosi, tra cui primeggia la paura della morte, li considero innati anche se li percepisco maggiormente da quando, dopo i trent'anni, mi sono avidamente accostato allo studio dei suoi testi e delle sue lettere».

C'è qualcuna delle sue opere a cui si sente più legato?

«Sicuramente Il Trionfo della Morte, ultimo della trilogia dei Romanzi della Rosa; è un'opera irrazionale, psicologica, quasi animistica che esalta la sua ipersensibilità. È il D'Annunzio dei tempi dell'Abruzzo, quello che io preferisco, dove la scrittura è libera e non ha bisogno di apparire, nè di nascondere. Poi viene il Notturno, dove emerge il lato più crepuscolare ma anche più esibizionistico. Eppoi le Faville del Maglio, la sua raccolta di poesie, prose e scritti autobiografici, degni del miglior Borges. E il Diario segreto? Un trionfo della scrittura creativa non inferiore a quella di Joyce».

A proposito di Dna, lei il 2 giugno 2018, festa della Repubblica, ha celebrato il suo quarto matrimonio. Neanche a dirlo, al Vittoriale...

«Non sono mai stato uno sciupafemmine come il mio bisnonno, se il sottinteso è questo. Passionale e sensibile sì, ma per Gabriele le donne erano una forma di ossessione».

A sposarla con la pianista Giulia Mazzoni è stato, tra colpi di cannone, il presidente Giordano Bruno Guerri sulla prua della Nave Puglia. Una festa in stile dannunziano?

«Beh, è stato un evento eccezionale, che è andato in diretta streaming con 5mila collegamenti dall'America alla Cina. C'era sicuramente un'iconografia che sarebbe piaciuta a Gabriele, a cominciare dalle rose di cui era appassionato, per lui simbolo eccelso di amore e bellezza. E poi c'erano tanti oggetti simbolici del Vittoriale, a cominciare dall'Alfa Romeo di Gabriele, Soffio di Satana, su cui sono arrivato con la sposa...»

Tra gli ospiti, vip e grandi musicisti, come i pianisti Michael Nyman e Roberto Cacciapaglia, il sax della Scala, Mario Marzi e il jazzista Achille Succi.

«La musica è una grande passione, soprattutto di Giulia che era appena reduce da una tournèe in Cina e, prima dello scambio delle fedi, ha suonato per me su un pianoforte a coda Winter's Dream dall'album Room 2401».

Lei collabora con la Fondazione del Vittoriale?

«Diciamo che partecipo in una veste di testimone, perchè il presidente Giordano Bruno Guerri, che è un grande professionista, in questi anni ha fatto un lavoro eccelso e non vorrei fargli pesare il mio cognome ingombrante».

Quest'anno si è celebrato il centenario del Vittoriale...

«Ero alla cerimonia inaugurale e con Giordano Bruno Guerri abbiamo parlato di possibili programmi futuri. Uno mi sta a cuore: rivalutare, dopo il Vittoriale, anche la figura di D'Annunzio poeta e scrittore, che si porta ancora attaccato il marchio dell'intellettuale fascista».

Non lo era?

«Assolutamente no. Gabriele è stato usato dal fascismo e poi abbandonato, ma era un uomo libero, tutt'al più potremmo definirlo un anarchico; per capire le sue idee politiche basta leggere la Carta del Carnaro, lo Statuto promulgato durante l'esperienza di Fiume e dove il popolo era dichiarato sovrano».

La sua concezione estetica della vita, sottratta alle leggi del bene e del male, ha molti detrattori.

«Pregiudizi: in realtà Gabriele è un perfetto testimone, pur con qualche eccesso, della migliore italianità: gioia di vivere, passione, cultura, desiderio di bellezza ed eleganza, fantasia, innovazione e intuizione poetica della vita. Che cos'è, se non il decantato made in Italy? Non dimentichiamoci poi di quanto fosse appassionato del suo Paese. Aveva principi solidi e, anche se era un farfallone, era molto affezionato alla famiglia che ha aiutato in molti modi».

A proposito di famiglia: hai mai avuto contatti con discendenti delle sue innumerevoli muse?

«No, però ho mantenuto una bellissima relazione con gli Hardouin, i discendenti della mia bisnonna Maria, con cui ci incontriamo spesso. E pensare che a quel tempo la famiglia l'aveva rinnegata per la fuga e il matrimonio con Gabriele».

Lei a Milano ha frequentato il liceo Parini alla fine degli anni 70. Periodi caldi politicamente, e con il suo cognome avrà corso qualche rischio.

«Beh sì, allora si era etichettati fascisti per definizione, anche se io non sono mai stato un estremista. Alle elezioni scolastiche guidai una lista liberale: per la prima volta in vent'anni al Parini vinse una lista non di sinistra».

A quei tempi per molto meno ti aspettavano sotto casa...

«Minacce ne ho avute, e anche qualche classica scritta sui muri con tanto di chiave inglese. Scontri veri e propri mai. Mi sapevo difendere e poi avevo un'ottima dialettica, quando prendevo la parola alle assemblee all'inizio mi fischiavano, ma poi stavano zitti. Anche a quei tempi, pare incredibile, con il dialogo si poteva vincere».

Sufficit animus, basta il coraggio, direbbe il bisnonno.

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