Cronaca locale

«Mio padre Emilio Tadini, milanese “ciclomane” con il vizio di divertirsi»

Nel suo studio accumulava carte e tele. E ora spunta anche un libro inedito

Luigi Mascheroni

Delle tante arti di cui Emilio Tadini fu maestro - la pittura, la scrittura, la poesia, la critica, la drammaturgia - credo che il figlio Francesco abbia ereditato soprattutto l’arte della conversazione. È una lunga e piacevole chiacchierata quella su Emilio o “l’Emilio” alla lombarda, come lo chiama, senza mai usare la parola “papà” - come tanti figli d’autore del resto -. «Vede questo salone? Mi piacerebbe poterlo utilizzare come spazio aperto al pubblico, magari a inviti: reading, presentazioni di libri, conferenze. Insomma, fare quello che piaceva all’Emilio: ricevere amici, studenti, critici, pittori. La sua casa era un porto di mare, veniva un sacco di gente e lui aveva sempre tempo per tutti. Non si è mai tirato indietro: a uno offriva un quadro, a un altro una prefazione o un “pezzo” per una rivista piuttosto che la presentazione di una mostra». Il salone è splendido, enorme, parquet chiaro, lucernario, finestroni in ferro battuto, librerie a correre lungo i muri, giganteschi quadri di papà alle pareti, separé lampade e sculture sparse ovunque. «L’ho appena risistemato. È stato il primo passo. Poi vorrei fare ordine nel suo studio, raccogliere la sua biblioteca che sarà di almeno 15mila libri e archiviare tutto il materiale che ha lasciato. Si figuri, è appena spuntato anche un romanzo inedito... ».
Il palazzo di famiglia, di inizio ’900, in zona Loreto, è uno dei primissimi a Milano costruiti in cemento armato. Fu qui, sede delle Grafiche Marucelli, la tipografia del nonno, che Tadini iniziò, piccolissimo, a “pasticciare” con lettere, caratteri e inchiostri. Ossia quello che poi ha fatto tutta la vita: dipingere e scrivere. «Che mi ricordi io, l’ho sempre visto lavorare a qualcosa. Era instancabile. Per lui il massimo del relax, tra una trasmissione televisiva e una mostra, era chiudersi nella nostra baita, in Valsesia, a scrivere un romanzo».
Francesco Tadini ha 40 anni, è regista e autore teatrale, scrive poesie, ha gli stessi occhi di ghiaccio del padre. «Emilio Tadini è stata una persona capace di fare della sua vita un’opera d’arte. Ecco, questa è una buona definizione di mio padre. Mi diceva: “Se dài tutto all’arte, l’arte ti dà tutto”. Eppure devo ammettere che lui non ci ha mai indottrinati all’arte, voglio dire a me e a mio fratello Michele, che pure è musicista. Non ci ha mai spinto. Ci ha sempre detto di fare la cosa che ci appassionava, e non per primeggiare ma perché è bello farla. Il suo consiglio era: “Fate i bravi, non i più bravi. I più bravi di solito sono sempre antipatici”. Lui comunque si dava sempre interamente: con costanza, con passione. È da qui che nasce la sua curiosità, la fantasia sterminata, il suo essere onnivoro e poliedrico, la sua disciplina». Disciplina? «L’Emilio restò orfano molto presto e fu allevato dalla zia Romilda, dalla quale ereditò appunto un forte senso della disciplina. Credo che fu anche per questo che si è laureato in fretta e a pieni voti, in Lettere, alla Cattolica». E poi? «Nel ’47 iniziò a lavorare per il Politecnico di Elio Vittorini, questo è noto. Ma so che prima partecipò a un concorso poetico dove era in giuria Montale. E infatti Emilio voleva fare il poeta, anche se lui si interessava a tutto. La Milano del dopoguerra offriva molte occasioni. Nello stesso modo in cui la gente andava a prendere il marmo al Monte Stella per farci i pavimenti delle case così i ragazzi usavano le idee per ricostruire la città. Collaborava ai giornali, si proponeva come giornalista piuttosto che come grafico. Con i suoi amici si trovava al Giamaica, il locale dove andavano a fare i pazzi, a urlare, magari ubriacarsi o parlare di letteratura e di arte. Oppure a Brera, dove si discuteva, ci si divertiva, si “poetava”. Si figuri: Dario Fo, con il quale è sempre stato molto legato, voleva fare il pittore. Quando però sentirono i suoi monologhi lo convinsero che forse la strada giusta era il teatro... Poi arrivarono gli anni Sessanta, in famiglia ancora oggi si ricordano le feste organizzate dall’Emilio, leggendarie. Ne organizzava che duravano giorni, qui in questo palazzo, con gente che andava e veniva in continuazione. Facevano di tutto. Un giorno lui e Guido Crepax disegnarono una gigantesca pista ciclistica sul pavimento di casa... ».
C’è da dire che anche quando diventò Tadini, l’artista famoso, l’intellettuale riconosciuto, non smise mai di divertirsi e di divertire. Chi lo conosce bene rimpiange il grande attore avrebbe potuto essere, le irresistibili gag con l’amico Umberto Eco, il suo movimentare le cene alle quali portava sempre un fiore, un baffo, un naso su carta bianca o cartoncino, come sapeva risolvere una polemica con un mezzo sorriso, il suo lato clownesco un po’ come la sua pittura, e tanti “vecchi” giurati del premio Bagutta rimpiangono ancora le sedute di quando c’era l’Emilio... «Era il suo stile. Emilio teneva sempre banco, raccontava storie a non finire. Credo che in questo modo cercasse una sorta di approvazione, oppure semplicemente celava la sua timidezza. Chissà».
Quando se ne è andato, quattro anni fa, in molti scrissero che senza di lui Milano non era più la stessa. Nei necrologi si esagera sempre, si sa (lo fece anche Tadini quando gli chiesero di scrivere quello dell’amico Gillo Dorfles, che non era per nulla morto, e fu uno scherzo magistrale di cui ancora si parla nei giornali). Però è vero che Milano Tadini la adorava, la “viveva” completamente, regalandole pagine e pagine di romanzi, disegni, mostre. «Emilio ha sempre abitato in questa città, la adorava, gli piaceva proprio - come dire? fisicamente. La girava in lungo e in largo in bicicletta: era un vero “ciclomane”. Come diceva il suo amico Oreste Pivetta “era un milanese ciclista: attraversava la città alla velocità giusta per misurare le distanze, per dare il giusto valore ai chilometri e alle ore”... ». Francesco Tadini tira fuori uno dei libri di papà, La tempesta, del ’93: «... piazza Caiazzo, via Vittor Pisani, piazza Loreto, via Porpora... Quando tornavo a casa ero talmente stanco... Ma, certe volte, quando uscivo dal sottopassaggio in fondo a via Porpora e vedevo, in cielo, quella specie di brivido... correnti fredde che strisciavano giù dai tetti... Mi mettevo a correre...

».

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