Missione «Samarcanda» tra pellegrinaggi e vendette

Ne «Il signore della guerra» di Franco Cardini rivive l’epopea di un Medioevo che cede il passo all’Umanesimo

Missione «Samarcanda» tra pellegrinaggi e vendette

All’inizio degli anni Ottanta, Franco Cardini fu ospite di un seminario di studi, «Al di là della Destra e della Sinistra. Costanti ed evoluzioni di un patrimonio culturale», organizzato dalla Nuova Destra in Veneto. Cardini era allora un brillante storico quarantenne, docente di medievistica a Firenze, già autore di saggi importanti ma, come si diceva a bassa voce fra noi trentenni impegnati in politica e senza né arte né parte, «accademici», termine generico che al suo peggio indicava noia infinita e al suo meglio passione ben regolata. Come «accademico» Cardini rientrava naturalmente nella seconda accezione, ma per noi ignoranti e per di più estremisti del pensiero questo pregio era tuttavia un difetto. Fosse stato uno studioso scarso e palloso non avremmo neppure perso tempo a sfogliarlo; l’essere invece interessante e intelligente ne rendeva imprescindibile la lettura, ma inconcepibile l’utilizzo. Detto in parole povere e stupide, a chi come noi sognava la presa del potere culturale, che cosa serviva saper tutto sulla cavalleria medievale?
In quei tre giorni di convegno Cardini si presentò con un eskimo e un basco da guerrigliero, una barba e un fisico alla Hemingway, e tenne un intervento sui concetti di festa e di comunità che a distanza di un quarto di secolo ricordo ancora. Era, al suo massimo livello, un incrocio fra una lectio magistralis, una conversazione colta, una chiacchierata fra amici, un brindisi di compleanno, un’orazione funebre e una mozione degli effetti. Era, insomma, un racconto, l’affabulazione straordinaria intorno a un tema che si traduceva in storia e memoria, passato e presente, ricordo, rimpianto e promessa. Nel recuperare radici che a un occhio distratto potevano apparire disseccate, Cardini le faceva brillare davanti ai nostri occhi e ne rendeva comprensibile il senso, il significato, la contemporaneità.
Il piacere, il fascino e la ricchezza di quell’intervento di allora l’ho ritrovati intatti nel volume di Cardini ora in libreria, Il signore della paura (Mondadori, pagg. 351, euro 17,50) e il modo in cui esso è costruito e portato a compimento permette altresì al lettore di gettare uno sguardo d’insieme sulla fucina mentale del suo autore, ovvero quell’insieme inesauribile che va dalle religioni all’alimentazione, dalla numismatica alle esplorazioni, dall’iconologia all’arte militare. Anche per questo la definizione di romanzo storico suona nella fattispecie un po’ stretta, perché Cardini non si limita ad ambientare una storia all’interno di un determinato arco di tempo, ma intreccia più civiltà, e le fa rivivere, le rende plausibili, ce ne mostra le origini, ne spiega gli sviluppi, ne coglie gli inevitabili esiti.
«Tre cavalieri verso la Samarcanda di Tamerlano» è il sottotitolo e appunto Timur Leg, Timur lo zoppo, Timur ovvero Il Ferro, il sovrano che sogna di conquistare il Celeste Impero, è l’ombra gigantesca che lo sovrasta. Ambientato all’alba del XV secolo, è la narrazione incrociata di tre pellegrinaggi, ovvero tre spedizioni, tre esplorazioni, tre missioni. C’è quella di un nobile fiorentino, di un suo concittadino esiliato e divenuto terziario francescano a Gerusalemme, di un gentiluomo castigliano. Diversi sono i motivi che stanno alla base del loro viaggio: una missione diplomatica, un desiderio di vendetta, una fantasia cavalleresca, ma simili le difficoltà che li attendono: le onde inquiete del Mediterraneo, i sortilegi incantati delle sue isole, le piste carovaniere della Via della Seta... Il tutto assume il ritmo di una fuga e di una avventura nella quale i «destini incrociati» dei tre cavalieri si mischiano e si scambiano di ruolo: fra mistici sufi, riti sciamanici, paurosi segni premonitori, torri di teschi umani e tigri mangiatrici di uomini.
Man mano che ci si addentra nel romanzo, tuttavia, chi legge si rende conto che ciò che lo attrae non è tanto la storia dei tre protagonisti, quanto la Storia in sé. Come scrittore Cardini ha pochi rivali nel far rivivere sulla pagina l’epopea di un’epoca che nel campo occidentale è quella di un medioevo che si avvia a divenire umanesimo, ma che in quello orientale ha un suo barbarico splendore che sembra non avere né fine né confini. I regni, le repubbliche, le signorie del Vecchio continente sembrano essere ben piccola e mediocre cosa di fronte agli imperi tartari, mongoli e turchi: non c’è raffinatezza in grado di eguagliarli, ricchezza che gli stia alla pari, dimensione che tenga loro il passo. «E ora si immaginava il mondo intero come il corpo di un gigante: l’imperatore della Cina era la testa e Timur Leg, in quel momento, il cuore tumultuoso; il Prete Gianni, sovrano dell’opulenta, misteriosa India e dell’Etiopia madre dell’avorio e dell’ebano ne era il torace e la colonna vertebrale, il sultano di Bursa e quello del Cairo potevano forse aspirare a coprire il ruolo dello stomaco e del fegato; può darsi che l’imperatore e il papa - poveri microbi che si sentivano il centro dell’ecumène e si proclamavano signori universali - ne fossero un braccio e una gamba, e così forse anche il basileus di Costantinopoli e quel ridicolo pazzo del re di Francia»...
L’altro da sé si erge dunque gigantesco, diverso eppure comprensibile, fonte di meraviglia ma anche di ammirazione, rispetto, emulazione. Pagina dopo pagina ne impariamo gli usi e i costumi, ne assaggiamo i cibi, ci impadroniamo del suo variegato cerimoniale. Ma pagina dopo pagina sappiamo sempre di più anche di usi, costumi, cibi, cerimoniali che fanno parte della nostra storia di europei e ci accorgiamo di come, già allora, miti, riti, leggende affondino in un humus comune, raccontino la stessa storia, esorcizzino le medesime paure, identici archetipi sotto lingue diverse.
Sul rapporto fra religioni Cardini è molto attento, e non è un caso che situi il suo romanzo agli albori del Quattrocento, allorché nella penisola italica il riaffiorare della classicità sotto forma di statue, reperti, monumenti, stempera una cattolicità ferrigna e prepara la strada a un Rinascimento intellettuale dove il dubbio, più che la certezza della fede, si fa motore della storia. Ma quella religione, monoteista e imperiale, che nelle crociate ha trovato il suo braccio armato, ha nel suo contraltare musulmano più punti di contatto di quanto non voglia ammettere, e nel gioco delle alleanze spesso e volentieri si schiera a fianco dell’infedele contro chi, a rigor di fede, dovrebbe essere invece il tuo alleato.
Fra aromi di spezie preziose, rombo di zoccoli di cavalli da guerra, pulsare di guerrieri spietati e generosi, echi di antiche leggende e di guide verso l’Aldilà, Il signore della paura è anche il racconto sul destino degli esseri umani, i percorsi misteriosi di cuori semplici spesso lacerati fra desiderio di vendetta e fedeltà all’amicizia, alla ricerca di un valore profondo da dare alla vita in un’età in cui la vita valeva poco e la fede spesso non bastava a spiegarla e a renderla coerente. Un mondo premoderno, fatto di sentimento più che di calcolo, e dove la vicinanza stessa con la morte aiutava magari a vivere più in linea con sé stessi.

Un mondo in cui viaggiare poteva anche significare un po’ rinascere e un po’ non morire, una iniziazione e una nuova dimensione, una salvezza nella fuga e un solvitur ambulando, la sanità attraverso il movimento... Di quel mondo il romanzo di Cardini traccia un sontuoso epitaffio e un commosso omaggio a ciglio asciutto.

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