Mistero sulla cattura di Saif. Aisha medita vendetta

Mistero sulla cattura di Saif. Aisha medita vendetta

I figli combattenti del colonnello, quelli con gli attributi, sono morti o dispersi. Uno è stato incenerito dalle bombe della Nato che dovevano centrare il padre. Altri tre se la sono data a gambe fuggendo in Niger e Algeria. E l’unica femmina, colta ieri da malore alla vista dell’esecuzione sommaria dell’amato genitore, medita vendetta dall’esilio. Gli otto figli di Gheddafi sono finiti nella polvere dopo essere stati messi su un piedistallo dall’Onu o da Hillary Clinton.
Rimane incerta la sorte del delfino, Saif el Islam, la Spada dell’Islam, il pargolo «intelligente» e politico del colonnello. Lo avevano dato per morto nella sacca di Sirte, come il padre. Poi avvistato in fuga verso sud con tre macchine blindate, probabilmente diretto in Niger. I miliziani di Zliten, vicino Misurata, hanno annunciato di averlo intercettato ingaggiando un aspro scontro a fuoco. Il delfino di Gheddafi sarebbe rimasto ferito al basso ventre. «I medici lo stanno curando e appena sarà possibile mostreremo le immagini - dicevano i ribelli -. Vogliamo tenerlo in vita per assicurarlo alla giustizia». Poche ore dopo sonora smentita delle stesse milizie di Zliten, che riapre il giallo. Trentotto anni, il delfino ora ricercato per crimini di guerra era vezzeggiato in Europa, dove aveva studiato, da vip vari come Marta Marzotto. Se fosse vivo mediterebbe sicuramente vendetta. Pochi giorni fa aveva incitato i suoi a rapire gli occidentali.
Invece è andata peggio a Mutassim-Billah, 34 anni, ex Consigliere della sicurezza finito nelle mani dei rivoluzionari a Sirte assieme al padre e massacrato. Mohammed al Bibi, il ragazzino immortalato con la pistola d’oro del colonnello, non avrebbe sparato al dittatore, ma a Mutassim. Una foto mostra il suo cadavere su un letto d’ospedale, con la barba lunga, una ferita alla gola, il cranio fracassato e i capelli alla hippy. La stessa chioma che lo immortala in un lucido completo marrone al fianco di una sorridente Hillary Clinton, nell’aprile 2009 a Washington. Il 29 agosto era toccata a Khamis. Il suo mezzo sarebbe stato preso in pieno da un elicottero Apache, mentre sfrecciava in colonna dalla capitale, oramai caduta, verso il santuario di Bani Walid. Figlio militare del colonnello, soprannominato il «macellaio», comandava la 32° brigata, i baschi rossi, un corpo di élite del regime. Durante la rivolta lo avevano già dato per morto tre volte.
Il primo del clan a cadere sotto le bombe della Nato era stato Seif el Arab, 29 anni, ucciso a Tripoli. I caccia avevano centrato la sua casa, dove c’era il colonnello che si è salvato per un soffio. A Monaco di Baviera aveva studiato, ma se lo ricordano ancora per le risse nelle discoteche.
Altri quattro figli sono sopravvissuti fuggendo all’estero. Al Saadi, 37 anni, che ha trovato rifugio in Niger, era più noto come viveur e scarso giocatore di calcio in Italia. Tripoli intende processarlo per omicidio.
In Algeria è fuggito il grosso del clan sopravvissuto, compresa la seconda moglie di Gheddafi, che i rivoluzionari libici vogliono farsi consegnare. Il più innocuo è Mohammed, arrestato dai ribelli a Tripoli e poi liberato con un’azione di forza. Il primogenito, 41 anni, si è sempre chiamato fuori dal sangue versato dal regime. Con lui c’è Hannibal, il figlio scemo, 33 anni, diventato famoso per aver alzato le mani su una domestica a Ginevra.
La vera combattente in esilio, legatissima al padre, è Aisha, la «Claudia Schiffer del Nord Africa». Trentaquattro anni, avvocato, ha fatto parte del collegio di difesa di Saddam Hussein.

Dal 2009, fino a pochi mesi fa, era ambasciatrice benefica dell’Onu per il suo impegno nella lotta all’Aids. Ad Algeri ha partorito la sua ultima figlia e giurato vendetta se avessero torto un capello a papà.
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