Il mite normanno che mise in riga i giudici arroganti

Il mite normanno che mise in riga i giudici arroganti

Tra le improvvide decisioni della Repubblica napoletana del 1799, anche il capriccio di dedicare un simposio alla memoria del Nostro. Presenti la moglie, Carolina, e i due figli, Carlo e Roberto, l’eminente concittadino scomparso da undici anni fu ricordato con toni fra il trombonesco e il commosso. Molti tra gli oratori avevano conosciuto il defunto prima della morte repentina a 36 anni di età. Sapevano dunque benissimo di che pasta fosse. Ciononostante, furono tutti d’accordo nel giocargli un brutto tiro: arruolarlo indebitamente tra i precursori della rivoluzione antiborbonica. Fosse malafede o entusiasmo, era in ogni modo un falso. Né più, né meno che fare di Voltaire un sanculotto. Il Nostro, riformatore moderato, avrebbe infatti avuto orrore dell’estremismo dei repubblicani napoletani. Presa alla sprovvista, la moglie Carolina non ebbe la prontezza di reagire e lasciò fare.
Mal gliene incolse. Di lì a poco, riconquistato il trono, i Borboni le presentarono il conto. Fu particolarmente dura la regina, Maria Carolina d’Asburgo. Costei era una poco di buono, ma aveva argomenti inoppugnabili. Carolina Fremdel era stata infatti sua dama di compagnia e istitutrice di una Infanta. La sovrana le rinfacciò la presenza alla cerimonia rivoluzionaria, gli applausi, le lacrime, gli abbracci. Per farla corta, il clima per la vedova divenne irrespirabile e fu costretta a lasciare Napoli con i figli.
Come sempre accade, trovò asilo sulla sponda opposta, nella Francia postrivoluzionaria e napoleonica. Fu proprio il Primo Console a ricevere gli esiliati giunti a Parigi. Incontro breve, ma indimenticabile per la famiglia dello studioso napoletano. Indicando il libro sullo scrittoio, un tomo dell’opera celeberrima del suo illustre marito, Bonaparte disse alla vedova: «Questo giovane uomo è maestro di tutti noi». Un epitaffio che Carolina si portò sempre nel cuore.
Il Maestro nacque da famiglia di origine normanna, giunta al seguito di Roberto Guiscardo nel Mezzogiorno d’Italia. Il padre era principe di Arianiello, la mamma una duchessa di Fragnito. Normanni erano anche i tratti del figlio. «Alto e modesto», lo definivano gli amici e Goethe, che lo incontrò nel 1787, poco prima della morte precoce, lo descrive così: «Il suo contegno, misto tra militare, cavaliere e gentiluomo, era addolcito da un tenero sentimento morale che traluceva amabilmente dalle sue parole e da tutto il suo aspetto».
Al giovane fu impartita un’etica giansenista e un’educazione ferrea. Lui e i fratelli dovevano studiare dieci ore al giorno, cominciando all’alba con un’ora di latino. Come presentendo che il destino gli concedeva metà di una vita media, fu precocissimo. A sette anni era sottotenente di fanteria (ma questo apparteneva agli usi ridicoli dell’aristocrazia napoletana), a 25 maggiordomo di settimana presso la Corte, carica che in genere si raggiungeva in età matura. Era fortemente legato alla monarchia borbonica. Fu invece critico verso i rampolli della nobiltà. Gli parevano dei perdigiorno, inorgogliti dai titoli altisonanti, contrari a ogni riforma che potesse modernizzare il Regno, colmando le distanze dagli altri Stati europei. Tutto qui il suo rivoluzionarismo.
A 19 anni, ancora prima di laurearsi in Legge, scrisse la Morale de’ legislatori in polemica con Cesare Beccaria che voleva abolire la pena capitale. Essa, dice invece il Nostro, può essere un deterrente necessario per reprimere determinati crimini. A 22, pubblicò un’attualissima Riflessione sullo strapotere dei giudici. Il primo ministro, Bernardo Tanucci, aveva appena emesso un editto per mettere un freno a costoro. Il Nostro lo appoggia in toto. «Il re vuole - spiega divinamente - che il linguaggio del magistrato sia quello delle Leggi. Egli parli quando esse parlano, e si taccia allorché esse non parlano o non parlano chiaro». Basta interpretazioni a capocchia, insomma. E aggiunge: «Nei governi dispotici gli uomini comandano. Nei governi moderati comandano le Leggi».
A 28 anni, dette alle stampe la sua opera somma. Ecco l’incipit: «Di cosa si sono occupati negli ultimi tempi i Sovrani d’Europa? Di trovare la maniera di uccidere più uomini nel minore tempo possibile. È ora che la filosofia venga in soccorso dei governi». Non è più tempo di Machiavelli, ma di Montesquieu. E proprio a lui si rifà il Nostro, dando al saggio un titolo che riecheggia L’Esprit des Lois.
Il successo è europeo. Benjamin Franklin, col quale resterà in corrispondenza fino alla fine, gli sottopose ammirato le bozze della sua Costituzione dei 13 Stati d’America. Solo la sorella canzonava benevolmente quel «buon uomo» del fratello, che si illudeva sulle virtù taumaturgiche della legislazione. A spasso con Goethe che era venuto a trovarlo, gli disse: «La gente sarà costretta a escogitare nuovi espedienti per aggirare le sue leggi, come fa con quelle esistenti».

E indicando il mare: «Vedete come è bella Napoli! Gli uomini vivono spensierati e felici: di tanto in tanto se ne impicca uno e tutto procede magnificamente».
Di fronte a quel mare, il Nostro morì poco dopo per una vecchia tisi e troppo lavoro.
Chi era?

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