nostro inviato a Ramallah
Salam Fayad spunta poco prima di mezzogiorno nell’ufficio della signora Hanan Hashrawi, figura di spicco, un tempo, nella squadra di negoziatori di Yasser Arafat e portavoce del primo governo palestinese messo in piedi a Ramallah. Lui e lei correvano sotto le bandiere de “La terza via”, piccolo raggruppamento centrista composto da ex personalità del Fatah usciti dal partito in polemica con i caporioni dell’Anp. Se le cose andranno bene, “La terza via” racimolerà forse un risicato due per cento dei voti. Non un grande risultato, oggettivamente. «Dica pure pessimo», corregge Salam Fayad, abbozzando un sorriso di circostanza e lucidandosi meccanicamente il distintivo con i colori della bandiera palestinese che porta all’occhiello di un impeccabile abito color fumo di Londra.
Cinquantatré anni, ex ministro delle Finanze ed ex dirigente del Fondo monetario internazionale, Salam Fayad gode all’estero di innegabile prestigio. Se c’è qualcuno capace di mettere ordine nelle marasmatiche finanze dell’Anp, come sanno anche a Washington, questi è Salam Fayad. Ma è un aspetto secondario, oggi. Quel che più conta è che, nell’ipotesi di una grande coalizione che veda Al Fatah e Hamas procedere a braccetto, potrebbe essere proprio lui, l’economista stimato anche in Israele, a guidare un governo innervato da ministri islamici. Lui, uno dei pochi capaci di tenere aperto un canale di comunicazione con l’Occidente.
Accetterebbe, se si creassero le condizioni, l’incarico di premier?
«Non mi chieda di rispondere oggi a questa domanda. Mi pare un po’ prematuro, date le circostanze. Oggi dobbiamo ragionare sui motivi che hanno portato alla sconfitta di Al Fatah e dei partiti moderati. Solo dopo che ci saremo chiariti le idee potremo affrontare scenari futuri».
Nessuno, alla vigilia del voto, aveva previsto una così clamorosa sconfitta di Al Fatah e un altrettanto vistoso successo di Hamas. Segno che anche gli aiuti prestati dagli Usa al Fatah, se pure ci sono stati, come sosteneva Hamas, non sono serviti.
«Io non credo che ci siano stati condizionamenti di sorta. La gente ha votato liberamente. Su questo mi pare non ci sia discussione. E in questo senso ho visto con piacere che anche gli esponenti del Fatah non contestano il risultato».
In un certo senso, lo dico paradossalmente, gli Stati Uniti hanno avuto quel che volevano. Chiedevano elezioni democratiche, e le hanno avute. Solo che l’esportazione della democrazia non funziona come si aspettano a Washington. In Irak hanno vinto i radicali sciiti. In Egitto, se avessero avuto mano libera, si sarebbero affermati i Fratelli musulmani. E in Palestina…
«Lo ha detto. Ma questo è il meccanismo della democrazia. Se poi i risultati non piacciono…»
Crede che il presidente Abu Mazen si dimetterà, come ha fatto il premier Abu Ala?
«Non lo so. L’ho visto dieci minuti fa e non me ne ha parlato».
Hamas chiederà la guida del governo? O finiranno, per prudenza, o anche perché sono spaventati dal loro stesso successo, per danzare insieme con Al Fatah?
«Hamas ha una maggioranza tale che potrebbe decidere di danzare da sola, per stare alla sua metafora. Queste sono le regole democratiche. E francamente mi sembrerebbe strano vedere un partito che vince le elezioni e rinuncia al mandato di formare il governo».
Se la scelta di formare l’esecutivo non fosse affidata a lei, accetterebbe il ruolo di ministro delle Finanze in un governo a guida Hamas?
«Non lo so. Non so che idea abbiano dell’economia i dirigenti di Hamas».
Il risultato delle elezioni palestinesi cambierà l’orientamento politico degli israeliani, che voteranno a marzo? In altre parole, non crede che il Likud di Netanyahu, che tutti davano per perdente, possa avvantaggiarsi dalla presente situazione?
«Tutto dipenderà da Hamas, dall’atteggiamento che terranno. Ma il rischio di una polarizzazione delle due società, quella palestinese e quella israeliana, chiuse in mondi sempre più chiusi, è il rischio che corriamo».
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