Il mondo che non c’è

Dopo un mese di governo dell’Unione, la politica internazionale dell’Italia si muove in un mondo che non c’è. Non c’è più, ad esempio, l’Europa dell’asse franco-tedesco nelle cui capitali Romano Prodi ha compiuto il suo primo viaggio e non c’è più nemmeno quel disegno dell’Europa politica che il presidente del Consiglio non cessa di rivendicare in contrapposizione al quinquennio della Casa delle libertà, il disegno che non è stato affondato dallo scetticismo della Lega bensì dai referendum francese e olandese. Ora c’è solo una incerta moratoria e «il figliol prodigo», come si è autodefinito il presidente del Consiglio, non ha saputo pronunciare una sola parola destinata a dare un senso al futuro del continente o a prefigurare un ruolo attivo del nostro Paese. Si è speso solo per il rispetto del Patto di stabilità, che in tempi lontani aveva definito «stupido».
Non c’è, poi, un contributo alla pace in Irak con la fine annunciata della missione «Antica Babilonia» e con la rinuncia ad un impegno, sul piano della cooperazione civile, che pure era stato annunciato e che si è via via disperso per l’ostilità di una parte del centrosinistra. Del resto non ha certo dato un contributo alla pace Zapatero, quando ritirò il contingente spagnolo e non lo darà l’Italia dell’Unione, seguendone le orme nel nome del mandato elettorale ricevuto. Sarà più debole l’azione, sul campo, di contrasto al terrorismo e cesserà il sostegno diretto al difficile e tormentato processo di costruzione della democrazia a Bagdad. E poi la decisione dell’Italia, sul piano delle relazioni internazionali, non è certo uno di quegli atti destinati a rafforzare l’alleanza euro-americana, di cui ha parlato con insistenza D’Alema.
Anche qui, non c’è alcun miglioramento dei rapporti, alcun consenso, come invece dice Prodi. Il tradizionale realismo dell’amministrazione americana nei rapporti con gli alleati non può indurre a pensare che si è «migliori amici» se ci si ritira dall’Irak e si è «subalterni» se ci si va. Che si è «migliori amici» se si cavalca la ventata pacifista o il movimento no-global, se si cerca di imporre la propria versione sulla tragica morte di Calipari, se si ripete ogni giorno che Guantanamo è il simbolo della violazione dei diritti dell’uomo, se si rinuncia anche alla «missione civile» a Bagdad. È una favola. Così come è una favola, anzi una smargiassata, rivendicare nei rapporti transatlantici – l’eterno ritornello della sinistra – un ruolo europeo più pesante che non c’è e che non può esserci, semplicemente perché non esiste un’Europa politica e militare.
Resta l’incognita dell’Afghanistan. Ci sarà o no un maggiore impegno nel quadro della Nato? D’Alema si è impegnato, Prodi è stato come al solito evasivo, Bertinotti non ne fa una questione di vita o di morte, ma il centrosinistra è ideologicamente diviso e la divisione potrebbe concretamente manifestarsi in Parlamento. Sul futuro della nostra missione, la Casa delle libertà è chiamata a giocare un ruolo importante. Non si tratta di compiere una scelta bipartisan con chi ha smantellato una visione internazionale, scegliendo la subalternità a Chirac. Si tratta di salvare l’essenza del ruolo internazionale dell’Italia.

Perché allora non prendere l’iniziativa e proporre una mozione parlamentare, che riaffermi l’impegno a Kabul, anche nella prospettiva di un maggiore coinvolgimento, e chiedere all’Ulivo, alla Rosa nel pugno, all’Udeur e a chi dell’Unione ci vuol stare un’adesione e un voto comune, nell’imminente occasione del rifinanziamento? Sarebbe un tentativo politico per riportare il governo nel mondo che c’è, nei suoi problemi, nelle sue vere sfide.

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