Mondo

Anna Politkovskaja, la voce spezzata della giornalista sola contro il Cremlino

Il 7 ottobre del 2006 la giornalista russa veniva assassinata nell'ascensore del palazzo in cui abitava a Mosca. Oggi i suoi libri e i suoi diari vengono letti da milioni di persone per capire "la Russia di Putin", mentre quell'esecuzione a sangue freddo è ancora avvolta nel mistero

Anna Politkovskaja, la voce spezzata della giornalista sola contro il Cremlino

È il 7 ottobre del 2006, un venerdì pomeriggio, quando Anna Politkovskaya, giornalista nota per i suoi coraggiosi reportage sulla Novaya Gazeta, veniva assassinata a sangue freddo nell’ascensore del palazzo dove abitava a Mosca. Quattro colpi di pistola, uno sparato dritto alla testa, per non correre rischi, per essere certi di aver portato a termine il lavoro. Accanto al cadavere viene ritrovata, insieme ai bossoli, la pistola semiautomatica Makarov calibro 9 che ha sparato quel giorno, e due buste con generi alimentari: la Politkovskaya stava rientrando a casa dopo aver fatto la spesa. Aveva 48 anni.

Nel frattempo, altrove, l’allora primo ministro Vladimir Putin - retrocesso in rispetto delle leggi costituzionali prima di tornare a ricoprire la sua posizione di presidente della Federazione Russa “a vita” - stava spegnendo le candeline per festeggiare il suo compleanno. Cinquantaquattro.

Per 8 lunghi anni, dopo un primo tentativo fallimentare di risolvere il caso, l’esecutore e il mandante di quell’omicidio rimasero avvolti nel mistero. Poi nel 2014 cinque uomini di origine cecena vennero accusati di essere i sicari inviati a mettere a tacere la giornalista. Oggi il “caso Politkovskaya” per molti è ancora un esempio dei metodi repressivi di Mosca. E, nell’infuriare della guerra in Ucraina, tra giovani mandati a morire, defenestrazioni e intrighi di palazzo per lotte intestine, un monito da prendere in esame per una narrazione spietata quanto inquietante.

La vita per un’inchiesta

Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati”, annunciava in un libro pubblicato in tempi non sospetti la Politkovskaya, che definendosi un volto come tanti "nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di un’altra città della Russia", non desiderava altro che vivere la vita e scrivere ciò che vedeva. Qualcosa che in Russia non è così facile da portare a termine senza dedizione e coraggio. Anche dopo che sono caduti i muri e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è diventata una Federazione con degli ex Stati satellite e degli alleati più o meno invisi a organizzazioni come le Nazioni Unite o la Nato. A partire dal 1999, la Politkovskaya decise di raccontare attraverso i suoi occhi la Seconda guerra cecena. Un conflitto condotto da Putin con una brutalità spietata, secondo alcuni osservatori. Per questo, e per altre opinioni libere di venire espresse in uno Stato “libero”, la giornalista dell’indipendente periodico Novaya Gazeta è stata ripetutamente minacciata e intimidita. È stata avvelenata, due volte; detenuta dalle forze di sicurezza russe. Infine, come la storia ci ha mostrato, giustiziata da un sicario. "Noi russi", scriveva “non vogliamo essere granelli di sabbia sugli stivali altolocati” di un tenente colonnello del Kgb (riferendosi a Putin e al suo passato, ndr).

Una morte esemplare

Una giornalista che rivela verità scomode può anche essere uccisa. Ma spesso la sua morte, invece che finire per lasciarla nel dimenticatoio, lascia una vasta eco nello spazio e nel tempo.

Come riportato dal New York Times, Petros V.Garibyan, l’uomo che guidò le indagini sull’assassinio, dichiarò apertamente: "Credo che la persona che ha ordinato l'omicidio lo abbia fatto non solo come ritorsione contro Anna Politkovskaya per le sue pubblicazioni critiche". E ancora, parlando del mandante dell'assassinio: "Ha commesso un atto dimostrativo, in primo luogo volto a intimidire tutti i giornalisti, così come la società e le autorità". Dopo aver indagato a lungo sulla vita della giornalista, sui suoi trascorsi, sui suoi rapporti e sul suo lavoro, gli investigatori di Mosca hanno stabilito che l'assassino era legato ai suoi “reportage provocatori”, continua l’investigatore, che però non ha trovato collegamento alcuno tra l’operato della giornalista e l’establishment russo.

Secondo altri punti di vista meno “ufficiali” però, le cose starebbero diversamente. È idea comunemente diffusa nei circuiti dissidenti che Putin abbia usato al tempo la “questione cecena” per consolidare il suo potere agli occhi del Cremlino ed estenderlo oltre frontiera. Questo collegamento avrebbe mosso la Politkovskaya ad approfondire le sorti del conflitto, trascinandola in un inferno che - a suo dire - non poteva esimersi dal documentare. Per questo continuò a recarsi in prima linea rischiando la vita per raccontare “ciò che vedeva”. Il suo ultimo articolo descriveva infatti come le truppe fedeli al futuro leader sostenuto dal Cremlino in Cecenia, l’ormai noto Ramzan Kadyrov, torturassero i civili rimanendo nella più bieca impunità.

I colpevoli materiali

Dopo un primo processo fallimentare nel 2009 che vedeva due imputati distanti dai fatti, il 9 giugno del 2014 si è concluso il processo per l’assassino della giornalista Anna Politkovskaya, condannando i cinque sicari ceceni che sono stati giudicati colpevoli dell’esecuzione “materiale” dell’omicidio della giornalista. Questo senza poter identificare in alcun modo i mandanti. Secondo quanto emerso in seguito i cinque uomini, due dei quali condannati all’ergastolo, erano killer a pagamento che in cambio di 150mila dollari misero a tacere una giornalista scomoda. Chi avesse pagato quella somma rimase un mistero e lo rimane tutt’oggi. Anche se molti si sono fatti la propria idee. Alcuni nomi infatti “aleggiano” sul triste destino della giornalista vittima di quello che è stato considerato fin dal primo momento un omicidio politico.

La redazione del Novaya Gazeta, e molti comitati di solidarietà mobilitatisi dentro e fuori i confini russi, hanno sempre sperato che la "volontà politica" avrebbe consentito, prima o poi, di rivelare il mandante dell’esecuzione. Le indagini si trovano di fronte a un muro di gomma, lo stesso muro che la Politkovskaja descriveva con solerzia nel suo libro reportage “La Russia di Putin” (2005). Libro inchiesta citato in apertura in cui la giornalista accusava lo stato maggiore dell’Esercito di negligenze, crimini e insabbiamenti; dove il Servizio segreto russo per le questioni “interne” (Fsb) viene accusato di soffocare metodicamente la libertà d’espressione per imporre una dittatura che ricalchi i metodi adottati dai sovietici - sebbene in maniera più sofisticata -; e che include una parte essenzialmente dedicata alle intricate questioni che regolano la criminalità organizzata in Russia.

Mandanti occulti e giornalisti morti

Tra il 1992 ed il 2021 in Russia e dintorni si sono verificate le morti di 58 giornalisti dissidenti o distanti dagli ideali del Cremlino. Anna Politkovskaya è la più nota tra questi e come molti di loro non credeva “al caso”. È affermazione soggetta al beneficio del dubbio, ma necessaria da riportare nel rispetto dell’onestà intellettuale, che la libertà d’espressione nella Federazione Russa sia minacciata da un “bavaglio” che non tollera dissidenze su argomenti delicati - come l’operazione militare in Ucraina.

Al tempo della Seconda guerra cecena le accuse mosse nei confronti di Ramzan Kadyrov - basate sulla documentazione di omicidi, rapimenti, torture e la distruzione di interi villaggi - potrebbe aver provocato l'antipatia del leader ceceno sul quale la Politkovskaya si era sempre espressa con toni nettamente inquisitori. Sebbene Putin avesse liquidato al tempo il lavoro della Politkovskaya definendolo "estremamente insignificante per la vita politica in Russia”, qualcun altro potrebbe non aver condiviso il punto di vista.

Il 5 ottobre 2006 la Politkovskaya aveva rilasciato un'intervista a Radio Svodoba durante la quale affermava senza indugi che Kadyrov era un "codardo armato fino ai denti”, "lo Stalin dei nostri giorni". L’ultimo articolo sul quale stava lavorando, secondo le cronache, voleva documentare la tortura e l'uccisione di due persone da parte di un corpo delle forze dell'ordine comandato dallo stesso Kadyrov. Quattro colpi di pistola lo hanno privato della sua conclusione. Ma, nella ferocia di questo epilogo, gli hanno concesso la conclusione più esemplare. Un monito a considerare le “questioni della Russia” dalla più tetra e disperata angolazione: quella di una giornalista coraggiosa e morente che sdraiata sul pavimento assiste alla rivalsa del carnefice in attesa del “kontrolnyi vystrel”, il colpo di controllo che viene sparato alla nuca. Nella speranza che il suo coraggio, così come il suo sacrifico, non fosse stato vano.

Ogni anno, nel giorno nella sua morte, una folla depone dei fiori davanti al portone del suo palazzo. Oggi è venerdì.

Come in quel lontano 2006.

Commenti