Quella tra Russia e Cina non è un’alleanza: è un’intesa. È l’equivalente contemporaneo dell’Intesa amichevole franco-britannica in chiave antitedesca di inizio Novecento. La storia insegna che poche alleanze durano all’erosione del tempo, ai machiavelli mefistofelici dell’Uomo, e che facilmente si sfaldano dopo che l’obiettivo fondativo è stato raggiunto. Se Mosca e Pechino riusciranno a essere l’eccezione alla regola, diventando i configuratori di una relazione speciale inossidabile simile a quella angloamericana, potrà stabilirlo soltanto la storia.
Il futuro cela un numero di insidie finanche maggiore a quelle del presente, e le prospettive di vita dell’Intesa sino-russa sono complicate dallo spettro sempreverde di Henry Kissinger, lo Stratega del xx secolo e l’autore di quella celebre “diplomazia triangolare” che permise agli Stati Uniti di vincere la guerra fredda mettendo sovietici e cinesi gli uni contro gli altri. Se Russia e Cina vogliono che il loro asse non imploda su se stesso, dovranno lavorare ai limiti e alle debolezze che ne rendono fragile la base e tenere in considerazione la plausibilità di nuovi tranelli kissingeriani da parte americana. Perché, come affermava il genio della diplomazia Henry Palmerstone, nessun equilibrio è realmente eterno: solo l’interesse nazionale lo è. E l’interesse nazionale degli Stati Uniti, eredi dell’Impero britannico, è il boicottaggio degli assi strategici tra le grandi potenze tellurocratiche dell’Eurasia al fine dell’egemonia sulla stessa.
L’esigenza cinese
La Cina non può fare a meno dell’Occidente. È grazie al commercio con il mondo occidentale che Pechino è diventato il gigante asiatico che conosciamo oggi. Pur senza democratizzarsi, come invece pensavano erroneamente i leader statunitensi ed europei, il Dragone ha sfruttato al massimo il contatto con Stati Uniti ed Unione europea. In un certo senso, possiamo affermare che la Cina ha mantenuto intatto il proprio hardware, modernizzandolo anno dopo anno in base alle esigenze del momento, adottando il software occidentale. Fuori di metafora, il Partito Comunista cinese non ha concesso quelle improbabili aperture che, secondo una credenza diffusa nell’opinione pubblica dei primi anni Duemila, avrebbero gradualmente trasformato la Repubblica Popolare in una democrazia. L’hardware, ovvero il sistema valoriale-politico, è rimasto sempre lo stesso: ovvero quel “socialismo con caratteristiche cinesi” piantato da Mao Tse-Tung, coltivato da Deng Xiaoping, perfezionato dai vari Jiang Zemin e Hu Jintao, e reso un pilastro assoluto da Xi Jinping. A cambiare, semmai, è stato il software. Pechino ha preso confidenza con certi concetti occidentali quali capitalismo e libero mercato, finanza ed economia globalizzata, Borsa e multinazionali, e in pochi decenni ha superato il “maestro” senza tuttavia snaturarsi più di tanto. In tutto questo, Pechino offre al mondo un modello ben diverso rispetto a quello incarnato dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo non ha alcuna intenzione di muovere guerre contro chicchessia. Al contrario, il governo cinese ha tutto l’interesse di non chiudere la porta (economica ma non solo) a una buona parte dell’Occidente, Europa in primis. È in un contesto del genere che prende forma la “triangolazione necessaria” tra Cina, Russia e Occidente. Pechino è l’ago della bilancia.
Imparare dal passato: dove sbagliarono i russi
Nikita Krusciov, successore di Josif Stalin, si fece promotore di un nuovo corso politico, incardinato sulla dottrina della “coesistenza pacifica” e avente come meta la “destalinizzazione”, sin dall’assunzione del comando. La linea Krusciov era pragmatica, in quanto mirante al recupero dei rapporti con la Iugoslavia e alla costruzione di un rapporto basato sulla prevedibilità con gli Stati Uniti: per questo si sarebbe scontrata con gli ultramontanisti dello stalinismo, capitanati dalla Repubblica Popolare Cinese, che accusavano il Cremlino di “revisionismo”. Mao Tse-Tung credeva che l’apertura agli Stati Uniti di Krusciov avrebbe inevitabilmente comportato un raffreddamento delle relazioni sino-sovietiche e, per di più, aveva accolto con un certo disagio la brutale soppressione dei moti ungheresi del 1956, intravedendo in quell’intervento la possibilità di future interferenze sovietiche in aree di interesse comune, perché sotto influenza comunista, ma magari localizzate in Asia orientale. Il fragoroso silenzio sovietico durante la crisi di Taiwan del 1958, poi, deteriorò ulteriormente le relazioni tra le due potenze-guida del mondo comunista. Mao e Krusciov non riuscivano a comprendersi, perché l’uno ideologizzato e impulsivo e l’altro pragmatico e, per certi versi, ambiguo. Questa incompatibilità caratteriale fu il principale motivo alla base della rottura sino-sovietica. Kissinger non creò nulla: si limitò ad alimentare le incomprensioni esistenti, trasformando una palla di neve in una valanga. Il Cremlino, inoltre, ebbe alcuni atteggiamenti ambigui in alcuni fascicoli, dall’immobilismo a Taiwan al presunto appoggio ai moti antigovernativi in Tibet, che giocarono un ruolo-chiave nell’incoraggiare Mao a “rompere”. La Cina, Mao ne era convinto, sarebbe stata sacrificata da Krusciov se si fosse presentata l’occasione al tavolo dei negoziati con gli Stati Uniti. Trattare con Kissinger, alla luce del crescendo di conflitti con l’Unione Sovietica – sfociati brevemente in guerra nel 1969 –, fu visto come essenziale nell’ottica di prevenire un tradimento ritenuto alle porte.
Non è tutto oro quello che luccica
Incomprensioni, diffidenza e paure ancestrali. I limiti dell’Intesa cordiale di oggi sono gli stessi di ieri, quelli, cioè, che causarono la lenta deflagrazione dell’Amicizia sino-sovietica. È vero che Xi e Putin sono due pragmatici, che tra l’altro hanno saputo sviluppare un ottimo e intenso rapporto extralavorativo, ma il dilemma dell’incomprensione non riguarda loro. Riguarda chi li succederà. I due capi di stato stanno commettendo l’errore tipico dei monarchi illuminati, quello di non pensare alla trasmissione del potere, all’istituzionalizzazione del carisma, e questo peserà tanto sulle dinamiche domestiche dei loro paesi quanto sulle loro relazioni con il mondo. Non è detto, in breve, che gli eredi di Putin e Xi saranno all’altezza dei predecessori, così come non è detto che vorranno seguire le loro orme. La storia insegna che tutto è possibile, che l’amico di oggi è il nemico di domani, e Russia e Cina non sono l’eccezione a questa regola.
La diffidenza è tipica delle grandi potenze, che non conoscono il significato della parola “alleanza” ma sono alla ricerca costante di “vassalli”. Gli Stati Uniti come la Russia. La Turchia come la Cina. È una condizione che lo stratega Edward Luttwak ha definito l’“autismo delle grandi potenze”, che non ha risparmiato l’Intesa cordiale russo-cinese. La diffidenza, come si è visto, ha sinora rallentato in maniera significativa l’espansione della collaborazione all’Artico, dove la Russia si è limitata ad accettare iniezioni di renminbi nel settore del gas naturale liquefatto ma guardandosi bene dall’amalgamare le teoricamente complementari Rotta del Mare del Nord e Via della Seta Polare – cosa, invece, non accaduta in Asia centrale, dove uee e bri costituiscono crescentemente un tutt’uno integrato.
E dietro la vetrina luccicante, inoltre, non va dimenticata né sottovalutata l’esistenza del fenomeno dello spionaggio, in ogni sua forma – politico e industriale –, come ricordato dall’arresto eclatante di Valery Mitko, il presidente dell’Accademia artica delle scienze di San Pietroburgo tradotto in carcere nel 2020 per aver passato segreti di stato ai servizi cinesi. Le paure ancestrali sono dure a morire, resistono allo scorrere del tempo, al passare dei secoli, e non potrebbe essere altrimenti: l’Intesa amichevole è un mezzo per un fine, non è tattica ma strategica, ed è intrinsecamente antistorica, dato che Russia e Cina rivaleggiano e guerreggiano per l’egemonia su Asia centrale ed Estremo Oriente sin dal xvii secolo.
Non è soltanto lo spettro di Kissinger l’unica incognita nel futuro delle relazioni tra le due potenze: è anche, e soprattutto, l’ombra dell’Amur. L’ombra dell’Amur è la paura della Russia di diventare socio di minoranza del partenariato, di diventare satellite del pianeta Cina, con tutto ciò che questo comporta: dalla perdita di influenza nell’estero vicino alla “colonizzazione” dei territori ad est degli Urali. La “paura gialla” in salsa russa ha natura primordiale, in quanto risalente all’epoca delle guerre tra gli zar e la dinastia Qing, ed è tanto bistrattata dalla classe dirigente della Russia europea quanto percepita da quei nove milioni di siberiani contermini naturalmente e costantemente ad oltre novanta milioni di cinesi.
Una pressione demografica enorme, sorgente di timori comprensibili, che negli anni recenti ha significato la crescita dirompente di partiti nazionalisti e l’arretramento di Russia Unita e che ha assunto anche altre forme, come le dimostrazioni popolari contro il disboscamento selvaggio della Siberia – le cui foreste soddisfano il 30% del fabbisogno di legname del mercato cinese – e per la protezione del lago Baikal – la cui trasformazione in fonte d’acqua per il mercato cinese fu bloccata da un forte moto di protesta nel 2019.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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