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Kosovo e Bosnia, viaggio nei primi esportatori mondiali di foreign fighter

In tutti i Balcani, le autorità non sanno contenere l'Isis e la sua propaganda. E gli attacchi continuano. Sostieni il reportage

Kosovo e Bosnia, viaggio nei primi esportatori mondiali di foreign fighter

L'Isis non poteva scegliere momento migliore della vigilia dell'arrivo del Papa a Sarajevo per seminare un po' di terrore con un video che minaccia i Balcani. Del resto Al Hayat Media Center (principale mezzo per le comunicazioni e i nuovi media dello Stato Islamico) è noto per la sua professionalità e per la sua coerenza all'agenda mediatica. Così il 5 giugno, i canali d'informazione di tutto il mondo annunciano che miliziani bosniaci, albanesi e kosovari incitano i loro connazionali e fratelli di fede a vendicare “le umiliazioni subite dai musulmani in Kosovo, in Albania e in Macedonia” per combattere la “sottomissione cristiana”. “Vi strangoleremo”, e ancora “Vi uccideremo, verremo con le cinture esplosive, e questo avverrà molto presto”.

La percezione dell'opinione pubblica balcanica di questo filmato è decisamente diversa da quella europea e americana. Meno angosciata; tanto che i media bosniaci non si sono troppo soffermati sull'argomento. Denis Hadzovic, direttore del Centro Studi sulla Sicurezza di Sarajevo, ci spiega che ormai è parecchio tempo che da queste parti si ha a che fare con messaggi che incitano al jihad dei Balcani e che quindi la diffusione di quest'ultimo video messaggio non dovrebbe avere un grande effetto sul reclutamento di jihadisti nell'area. Quello che invece preoccupa è che l'Isis sta migliorando rapidamente la sua capacità di diffondere informazioni sul web e che le autorità competenti non sono in grado di contenerle.

Ma, secondo molti, le istituzioni non saprebbero affrontare ben altri problemi. Basti pensare che nelle ultime settimane i Balcani sono stati sconvolti da una serie di attacchi che hanno messo allo scoperto tutta la loro fragilità e l'incapacità di gestire da soli la minaccia terroristica che pende sulle loro teste. Il 21 aprile, 40 persone armate, organizzate in un commando appartenente a ciò che rimane dell'UCK (esercito di liberazione operante in Kosovo e in Macedonia, mirante alla costruzione della Grande Albania), hanno occupato per un paio d'ore la sede della polizia di Gošince, nel nord della Macedonia. L'hanno poi abbandonata e si sono dileguati prima dell'arrivo dei rinforzi di Skopje, che comunque non si è dimostrata efficiente e solerte nell'intervento. Pochi giorni dopo, il 28 aprile, un giovane wahabita ha attaccato l'ufficio di polizia di Zvornik (Repubblica Srpska di Bosnia Erzegovina); bilancio dell'attacco la morte dell'attentatore e di un agente. Di nuovo il 9 maggio, in Macedonia al confine con la Serbia, la cittadina di Kumanovo è stata attaccata da 50 membri dell'UCK che hanno ucciso 8 poliziotti e ne hanno feriti 37. Stavolta sono rimasti coinvolti anche dei civili, in numero tuttora imprecisato. Poi, il 5 giugno, il video messaggio che minaccia tutti gli infedeli dei Balcani.

Secondo i dati del Kosovar Centre for Security Studies (KCSS), Kosovo e Bosnia sono i primi due esportatori mondiali di foreign fighters rispetto al numero di abitanti, contando 232 e 330 combattenti all'estero. E questo nonostante il rafforzamento delle misure antiterrorismo e l'introduzione di leggi che puniscono severamente coloro che decidono di andare a combattere le guerre degli altri. Il problema delle forze dell'ordine bosniache e kosovare, sembrerebbe essere la loro molteplice composizione etnica e le tensioni che ne derivano. Nella Bosnia, divisa in due entità (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Srpska), operano due corpi di polizia che non sempre agiscono congiuntamente. Basti pensare che la Repubblica Srpska, in seguito all'attentato di Zvornik, ha ritenuto opportuno avviare l'operazione Ruben che ha portato all'arresto di 32 persone e al sequestro di armi, munizioni e materiale di propaganda riconducibili a cellule del terrorismo islamico. E lo ha fatto senza coordinarsi con la polizia bosniaca. “Noi conosciamo bene il problema ma abbiamo il potere di contrastarlo solo sul territorio di nostra competenza” -dice Gojko Vasic, direttore della polizia serba- “Sarebbe necessario coordinarsi per avere un quadro completo, ma questo è possibile solo con l'aiuto della comunità internazionale perché qui ci sono troppe frizioni politiche”. Ce lo conferma Predrag Ćeranić, professore dell'università di Banja Luka e capo dei servizi d'intelligence bosniaci durante la guerra, “Lo scambio di informazioni tra le agenzie di sicurezza balcaniche è spesso insufficiente”. La parte bosniaca la vede in maniera del tutto diversa, tanto che, in seguito alla sopracitata operazione Ruben, sono seguite polemiche della comunità dei musulmani di Bosnia che accusano i serbi di voler sfruttare il problema del terrorismo per organizzare una nuova pulizia etnica. Addirittura Bakir Izetbegovic, esponente musulmano della Presidenza della Bosnia Erzegovina, sta pagando gli avvocati ai 32 arrestati.

“Tutto in questo paese viene strumentalizzato politicamente, e l'argomento jihad è particolarmente suscettibile di diverse interpretazioni.”, ci riferisce l'Ambasciatore italiano in Bosnia, Ruggero Corrias. “Da una parte si tende a sminuire il fenomeno, dall’altra a ingigantirlo. Il problema esiste in tutta Europa ,e la Bosnia - dalle frontiere porose e gli equilibri etnici, religiosi e politici fragili – non fa eccezione. Noi stiamo lavorando bene, siamo coordinatori del programma anticriminalità (nel quale rientra anche il terrorismo) su cui sono stati investiti 5milioni di euro”.

ll KPS (Kosovo Police Service) ha una composizione multi-etnica che rispecchia le stesse proporzioni della popolazione attuale: gli albanesi e i serbi sono la maggioranza (con rispettivamente 4759 e 530 agenti), ma ci sono anche ashkali, bosniaci, cerkezia, croati, egiziani, goran, macedoni, montenegrini, rom e turchi. A gennaio del 2014, grazie all’attuazione degli accordi di Bruxelles, i poliziotti serbi sono stati integrati nella Kosovo Police, ma rispondono comunque a un comando diverso da quello dei loro colleghi albanesi. La polizia kosovara è la più giovane delle polizie del mondo: i primi addestramenti sono iniziati a settembre 1999 ad opera di KFOR (Kosovo Force, forza militare NATO) e, in particolare, di MSU (Multinational Specialised Unit, ora composta dai soli Carabinieri italiani). La Kpolice è anche cresciuta in fretta e dal 2008, è primo risponditore della sicurezza in Kosovo, supervisionata in seconda battuta da Eulex( European Rule of Law Mission) e in terza da KFOR. Il Generale Salvatore Farina, al comando di KFOR dal 6 settembre 2013 al 4 settembre 2014 (gli è succeduto Generale italiano Francesco Paolo Figliuolo), affermava nell'aprile dello scorso anno, che “la polizia kosovara sta lavorando bene, ma che ha ancora dei problemi nella gestione della sicurezza”. Un ritiro immediato di KFOR non sarebbe comunque auspicabile, perchè “la calma di cui si gode è solo apparente”.

Non sono solo i serbi quindi a ritenere che sia necessario vigilare sull'operato di forze dell'ordine all'interno delle quali ci sono ancora frizioni forti ed equilibri fragili. Ma sono sicuramente i serbi quelli che lo dicono a voce più alta. “C'è bisogno di lavorare tutti insieme, di coinvolgere l'Europa, perché questo non è un problema solo dei Balcani”, ribadisce Gojko Vasic, direttore della polizia della Repubblica Srpska. E lo conferma Predrag Ćeranić, sopracitato esperto della materia: “La comunità internazionale dovrebbe mettere in moto una macchina più efficace per combattere il jihadismo. Non ci si può limitare al rafforzamento delle collaborazioni bilaterali tra i singoli Paesi.

Chiunque abbia un minimo di competenza è perfettamente consapevole che se cadrà Damasco, il jihad arriverà nei Balcani per poi diffondersi in tutta Europa”.

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