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Il ritorno della schiavitù

Sono uomini, donne e bambini che vengono attratti dalla promessa di un lavoro e una vita migliore e poi obbligati a lavorare gratuitamente o costretti a vendere il proprio corpo per strada

Il ritorno della schiavitù
New York - Min Min Chan aveva 17 anni quando la sua vita divenne un incubo. Originario della Birmania, nel sudest asiatico, Chan era di famiglia povera. Viveva con i genitori e le due sorelle più piccole e, unico figlio maschio, doveva provvedere alla famiglia. Quando gli capitò fra le mani la possibilità di lavorare su una barca da pesca in Thailandia, Chan non ci pensò due volte prima di dire di sì. L’uomo che gli aveva offerto il lavoro sembrava una persona per bene. Chan si fidava di lui. L’aveva addirittura accompagnato dalla Birmania fino in Thailandia, per assicurarsi che salisse sulla nave da pesca senza problemi. Ma appena la nave prese il largo, Chan capì che c’era qualcosa che non andava. “Mi appartieni”, gli disse il capo della nave. Insieme ad altri - uomini schiavi come lui - Chan fu messo a lavorare senza sosta, 20 ore al giorno, sette giorni a settimana, senza essere pagato. Gli davano poco cibo, quanto bastasse a farlo sopravvivere. Quando qualcuno rallentava il passo, si fermava un secondo per riprendere fiato, veniva picchiato brutalmente. Se uno dei lavoratori si faceva male, veniva buttato in mare. Un giorno, quando la nave attraccò in un piccolo villaggio dopo mesi di mare aperto, Chan tentò di scappare. Venne preso e torturato con degli ami da pesca. “La prossima volta che ci provi ti torturiamo finché non muori,” gli dissero. “Non pensavo ad altro che scappare da questa terribile situazione,” dice Chan. “Ho affidato la mia vita a Dio e pregavo.” Come Chan esistono milioni di persone al mondo, la cui vita è intrappolata in forme di “schiavitù moderna”, come la chiama il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Secondo il Global Slavery Index, esistono nel mondo 36 milioni di schiavi, di cui almeno 60 mila negli Stati Uniti e più di 11 mila in Italia.

Non si tratta di schiavi nel senso “storico” del termine. Non sono gli schiavi d’epoca romana, bottino di una guerra di conquista ai confini dell’Impero. Non vengono caricati su una nave in Africa e portati in America a lavorare nelle piantagioni di cotone della Georgia. Ma sono uomini, donne e bambini che vengono attratti dalla promessa di un lavoro e una vita migliore - e poi obbligati a lavorare gratuitamente o per pochi dollari - o costretti a vendere il proprio corpo per strada. “L’ingiustizia, l’oltraggio della tratta degli esseri umani... devono essere chiamati con il loro vero nome: "schiavitù moderna”, ha detto il presidente Obama nel 2012. “E non uso questa parola, "schiavitù", in senso leggero. Evoca uno dei capitoli più dolorosi nella storia della nostra nazione. Ma non è possibile negare che questa realtà esista in tutto il mondo”.

Esiste, in modi e forme diverse. Secondo Kevin Bales, il co-fondatore di Free the Slaves, un’associazione che combatte contro la tratta degli esseri umani, non c’è molta differenza fra la schiavitù antica e moderna. Quello che cambia è che al giorno d’oggi milioni di persone vengono schiavizzate con la promessa di una vita migliore, una chance di scappare dalla povertà. La crescita smoderata della popolazione in paesi sottosviluppati e in via di sviluppo non fa che aumentare il numero di persone povere e, quindi, il numero di potenziali vittime. E il risultato è un abbassamento del “prezzo” dei singoli schiavi. Negli Stati Uniti, nel 1850, un nero veniva venduto per circa 40 mila dollari, al cambio attuale. Oggi, “creare” uno schiavo - come nel caso di Chan - costa solamente 90 dollari. La tratta degli esseri umani è alimentata, in parte, dal bisogno di manodopera a basso prezzo per sostenere lo sviluppo smisurato di paesi come la Cina e l’India, ma anche per produrre prodotti poco costosi - come vestiti, cellulari e TV - che vengono venduti in paesi sviluppati in Europa e negli Stati Uniti. Il 61 percento degli schiavi del XXI secolo vive in cinque paesi: India, Cina, Pakistan, Uzbekistan e Russia. In questi paesi, la povertà, la corruzione, il crimine e la discriminazione verso certi gruppi etnici crea una tempesta perfetta per lo sviluppo e il successo della tratta degli esseri umani. Nel Golfo Persico, in paesi come il Qatar, per legge i datori di lavoro hanno controllo quasi totale sui dipendenti stranieri, molti dei quali vengono sfruttati e maltrattati, soprattutto quando lavorano come domestici o nell’industria edilizia. È qui che, ogni giorno, migliaia di operai, la maggior parte del Nepal e delle Filippine, sono sfruttati in modo disumano per la costruzione di stadi e altre strutture legate al mondiale di calcio del 2022, che il Qatar ospiterà. Nell’Africa centrale e occidentale, milioni di persone sono costrette a lavorare per pochi dollari o gratuitamente nelle piantagioni di cacao e nelle miniere di diamanti e oro. Molti sono bambini dai cinque anni in su che non possono andare a scuola. Ma è in posti come la Mauritaniadove avere schiavi è parte integrante della cultura localeche la schiavitù in senso antico interessa la percentuale più alta della popolazione. In questo paese dell’Africa occidentale di 3,7 milioni di persone, il 20 percento della popolazione vive in schiavitù. Le vittime sono i neri delle caste più basse, che vengono regalati come schiavi ai membri di pelle più chiara delle caste di élite di discendenza araba—schiavi a vita. Lavorano come domestici, servi, o pastori di cammelli e capre. I figli degli schiavi in Mauritania sono proprietà dei padroni. Ma il fenomeno della schiavitù moderna non esiste solo nei paesi poveri o in via di sviluppo. La tratta degli esseri umani avviene anche qui, a casa nostra. L’Italia, in particolare, è luogo di transito e destinazione per migliaia di immigrati ogni anno, fra cui migliaia di donne costrette a prostituirsi nelle strade delle città italiane. I “papponi” che le schiavizzano le fanno arrivare in Italia su barconi di fortuna, spesso dalla Nigeria e dal Ghana, e poi le costringono a ripagare il viaggio mettendole sulla strada. Negli Stati Uniti, come in Italia, le vittime sono spesso immigrati come Ima Matul. Matul aveva 17 anni quando venne negli Stati Uniti dall’Indonesia per lavorare come domestica nella casa di una famiglia indonesiana a Los Angeles. Le promisero che sarebbe stata pagata 150 dollari al mese—invece dei 5 dollari che riceveva in Indonesia—più vitto e alloggio. Come Chan, per scappare dalla miseria, Matul accettò il lavoro. Ma una volta arrivata negli Stati Uniti, a casa della famiglia, fu messa a lavorare 18 ore al giorno, sette giorni alla settimana, senza essere pagata. I padroni di casa la maltrattavano e abusavano di lei. Una volta la picchiarono a tal punto da mandarla in ospedale. Matul non parlava inglese, non sapeva neanche cosa fosse Los Angeles al di fuori di quelle quattro mura domestiche dove era stata rinchiusa e resa di fatto una serva. I padroni la minacciavano dicendole che non aveva i documenti in regola e che la polizia l’avrebbe arrestata e violentata. Un giorno, Matul si fece coraggio. Col passare dei mesi, aiutando i figli della famiglia a fare i compiti, imparò abbastanza inglese da riuscire a scrivere una lettera di aiuto e farla recapitare alla domestica della famiglia accanto. La domestica la aiutò a scappare e a cercare aiuto in una ONG locale. Oggi Matul ha 33 anni e vive ancora a Los Angeles, dove è diventata un’attivista che si batte per i diritti delle vittime della tratta degli esseri umani. “La libertà è tutto,” dice Matul. Ma le vittime non sono solo immigrati. Rachel Thomas, cittadina americana, veniva da una famiglia benestante di Pasadena, in California. Aveva 20 anni ed era al terzo anno di università ad Atlanta, Georgia, quando conobbe un uomo dalla parlata facile e affascinante che la convinse a fare qualche provino per diventare modella. Le organizzò dei lavoretti legittimi in un video musicale e in qualche rivista, finendo per convincerla a firmare un contratto che lo nominava suo agente. In realtà, il contratto la obbligava a cedere una percentuale dei suoi guadagni per 10 anni. In poco tempo, Thomas si ritrovò a ballare in uno strip club e, infine, a prostituirsi. Le minacce le impedivano di chiedere aiuto. Il “pappone” la terrorizzava. Se fosse andata dalla polizia, le diceva, avrebbe inviato qualcuno a Pasadena, a casa dei genitori, a sparare a freddo a chiunque avesse aperto la porta di casa. Se cercava di ribellarsi, Thomas veniva picchiata. Di solito i pugni la colpivano alla testa, così i lividi non si vedevano sulla pelle e i clienti non s’insospettivano. Il suo incubo durò per 10 mesi, quando infine un’altra ragazza, anche lei costretta a prostituirsi nello stesso strip club, andò dalla polizia e il “pappone” venne arrestato. “In solo cinque settimane divenni una vittima della tratta degli esseri umani da studentessa universitaria di successo che ero”, dice Thomas, che ora ha 29 anni ed è a capo di un’associazione che parla dei pericoli della schiavitù moderna e della prostituzione nelle scuole. “I giovani sono i bersagli più facili”. Al giorno d’oggi, ogni paese al mondo ha riconosciuto la schiavitù come un crimine—alla pari della pirateria e del genocidio. Ma gli sforzi per eliminare la tratta degli esseri umani sono relativamente recenti. Nel 2000, per la prima volta, la comunità internazionale si riunì e firmò un protocollo per combattere la tratta degli esseri umani, e definire esattamente in cosa consista. “Fino ad allora c’era molta confusione”, dice Simone Monasebian, la direttrice del New York Office on Drugs and Crime alle Nazioni Unite. “E se non sai esattamente qual è il problema, è difficile combatterlo”. Quattordici anni dopo, sono stati fatti molti passi avanti. Nell’Unione Europea, i governi dei paesi membri stanno collaborando più che mai per assistere le vittime e condannare chi è colpevole del loro sfruttamento. Negli Stati Uniti, il governo sta investendo 21 milioni di dollari per combattere la tratta degli esseri umani e Obama ha lanciato un boicottaggio dei prodotti creati grazie allo sfruttamento degli schiavi. Chan, il ragazzo birmano che venne schiavizzato sulla nave da pesca thailandese, vorrebbe che ogni paese facesse lo stesso. Il suo incubo durò nove anni. Un giorno, quando la nave attraccò in un villaggio indonesiano, Chan riuscì a fuggire. Per tre giorni si nascose nella foresta. Non aveva cibo, vestiti, né scarpe. Di notte si fermava a dormire sugli alberi per paura dei serpenti e degli insetti velenosi. Finalmente, dopo nove anni di inferno, Chan riuscì a tornare dai genitori in Birmania. “Ero felicissimo”, dice Chan. “Non avevo più tensione addosso e mi sono sentito libero”.

Una versione di questo articolo è stata originariamente pubblicata sul New York Times Upfront.

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