Bashar Al Assad si è detto pronto a lasciare la guida della Siria per il bene del Paese. La Russia continua a bombardare le postazioni degli jihadisti dello Stato islamico e quelle dei ribelli più estremisti, ovvero legati ad Al Qaeda. Per comprendere lo scenario siriano nella sua totalità, abbiamo intervistato Matteo Bressan, analista presso il Nato Defense College Foundation e coautore, insieme a Laura Tangherlini, di Libano nel baratro della crisi siriana, vincitore del Premio letterario Cerruglio 2015.
Gli aerei russi stanno bombardando le postazioni jihadiste. Cosa ha mosso l’intervento della Russia nello scacchiere siriano?
Chiariamo subito che quella che un tempo era la presenza sovietica e oggi russa in Siria non è una novità e non dimentichiamoci mai che la Russia ha più volte posto il veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro possibili azioni contro Assad. La scelta del veto, così come la decisione che oggi pochi ricordano di schierare navi russe davanti alle coste siriane nell’agosto del 2013 quando sembrava ormai imminente una vasta operazione degli Stati Uniti contro Assad, principale indiziato dell’attacco chimico di Ghouta, era una chiara anticipazione della riscrittura delle regole gioco. Oggi quelle premesse sono diventate realtà e stiamo assistendo alla più importante operazione militare (considerando anche il fronte ucraino) che la Russia abbia mai messo in atto su vasta scala all’estero dopo il 1989. La stessa notizia che a Baghdad sarebbe attivo un centro di Comando militare dove operano congiuntamente russi, siriani, iraniani e iracheni rende l’idea di come la Russia sia rientrata in modo inequivocabile nello scacchiere mediorientale. Prima ancora di ragionare sugli obiettivi militari e politici dell’operazione russa dobbiamo comprendere che la Siria in questo momento prima ancora di essere un terreno di scontro tra superpotenze regionali e mondiali è, in tutta la sua drammaticità, un metodo di ridefinizione dei rapporti di forza tra superpotenze e attori regionali. Russia e Cina sin dai veti posti al Consiglio di Sicurezza hanno mandato un messaggio diretto e chiaro a Washington facendo intendere di non essere più disposti a tollerare quanto accaduto in Iraq nel 2003. Detto questo ritengo che non si possano nemmeno sottovalutare le preoccupazioni di Putin rispetto alla concreta minaccia rappresentata dai numerosi foreign fighters che dalla Russia si sono uniti all’Isis. Inutile ripetere che la sfida rappresentata dai foreign fighters è una sfida globale che investe ormai quasi tutti i paesi, alla luce dell’impressionante numero di combattenti stranieri presenti in Siria e Iraq e necessita una risposta globale sulla base di una maggiore cooperazione tra forze di polizia e agenzie di intelligence e una maggiore condivisione delle informazioni.
Uno dei principali alleati di Assad è Hezbollah. Perché? E quale ruolo ha nella lotta all’Isis? È cambiato qualcosa nel Partito di Dio?
Bisogna chiarire un aspetto fondamentale di questa vicenda. Il sostegno politico di Hezbollah ad Assad è un fatto per certi versi logico se si considera lo storico legame che vi è sempre stato tra gli Assad ed il movimento sciita libanese e più in generale se ricostruiamo la storia e i legami tra la Siria ed Hezbollah. Il punto invece sul quale è opportuno riflettere è il percorso intrapreso da Hezbollah e dal suo leader Hasan Nasrallah nel sostenere Assad. Non dimentichiamoci mai che le rivolte iniziate a Damasco e a Dara’a nel marzo del 2011 si collocano nel filone delle cosiddette “primavere arabe”, sostenute come nel caso libico ed egiziano, dallo stesso Hasan Nasrallah. Una parte di mondo arabo non comprende la decisione del Partito di Dio di schierarsi politicamente al fianco di Assad e nel 2012, l’anno più difficile per le forze del regime siriano e per la stessa sorte del regime, sembra che la scelta di Hezbollah sia perdente. Addirittura diversi simpatizzanti del movimento non comprendono come il cosiddetto “asse della resistenza”, costituto appunto da Iran, Siria ed Hezbollah ,che aveva reso possibile la “resistenza di Gaza e del Libano”potesse schierarsi contro la rivoluzione siriana. L’emergere di gruppi jihadisti nella galassia anti - Assad e l’afflusso in Siria di combattenti stranieri ha aperto nuove prospettive ad Hezbollah cha ha potuto giustificare in questo modo non solo la sua vicinanza politica ad Assad ma, cosa ancor più significativa sotto il profilo strategico, il suo diretto e imponente dispiegamento militare in territorio siriano. La decisione, annunciata nell’aprile del 2013 da Hasan Nasrallah, ma già in atto almeno dal 2012, di combattere in territorio siriano era giustificata dalla necessità di fermare un progetto ostile da parte di tutti coloro che volevano disintegrare la Siria e disallinearla dall’asse della resistenza. Nasrallah chiariva in quell’occasione che non era in atto uno scontro confessionale ma uno scontro per fermare i takfiri ed evitare che potessero estendere la loro azione anche in Libano. Vi erano poi ragioni prettamente militari che definivano il ruolo di Hezbollah in Siria e che consistevano nel puntellare le capacità militari del regime di Assad, fornendo assistenza e formazione all’esercito siriano in un primo momento e poi combattendo direttamente i vari gruppi dell’opposizione siriana, garantire le vie di comunicazione tra Damasco e il Libano dalle incursioni dei ribelli e prevenire, qualora fosse caduto Assad, la nascita di un possibile regime sunnita al confine con il Libano. Naturalmente questa decisione ha avuto un costo enorme in termini di vite umane per i combattenti di Hezbollah, tanto che si stima che il movimento abbia avuto più vittime in questo conflitto che non in tutti gli anni di confronto con Israele e soprattutto ha ulteriormente contribuito ad esasperare il clima politico libanese tra coloro che accusavano Hezbollah di esporre il Libano alle ritorsioni dei gruppi jihadisti operanti in Siria e coloro invece che ritenevo necessaria la guerra preventiva del Partito di Dio onde evitare il dilagarsi del fondamentalismo. Certamente va detto che Hezbollah si è confrontato militarmente e duramente con vari gruppi tra i quali al Nusra e l’Isis nelle aree a ridosso del confine nord orientale del Libano e non solo. Non dimentichiamo inoltre che buona parte della gestione della sicurezza sul confine del Nord – Est del Libano si è caratterizzata per la cooperazione “informale” tra l’Esercito Libanese, per quanto riguarda la sicurezza all’interno dei confini del Libano, ed Hezbollah per quanto riguarda il confine con la Siria. Non vi è dubbio che tutto questo rappresenti un’evoluzione significativa per il movimento sciita libanese che, nato durante la guerra civile libanese (1975-1990) ed evolutosi fino a diventare partito politico con proprio esponenti in Parlamento oggi di fatto rappresenti una milizia armata in grado di esprimere una potenza di fuoco tale da venir paragonata dall’intelligence israeliana come l’ottava potenza militare del mondo.
Quale ruolo gioca l’Iran nel conflitto siriano? È un alleato affidabile per l’Occidente?
L’Iran ha impedito, grazie all’impiego di uomini e mezzi e grazie alle capacità del suo miglior comandante, il Generale Qassem Suleimani, il crollo del regime. Gli iraniani hanno coordinato le varie milizie sciite operanti in Siria affinché Assad potesse riconquistare alcune località strategiche per la stessa sopravvivenza del regime. Non è un mistero che l’Iran stia vivendo questo conflitto per l’egemonia regionale con le monarchie del Golfo e la Siria, insieme allo Yemen e all’Iraq, è il campo di battaglia dove avviene questo confronto. Ritengo che alla luce dello storico accordo dello scorso 14 luglio sul nucleare iraniano l’Occidente debba coinvolgere l’Iran nella gestione delle crisi nell’area proprio in virtù della strategicità e stabilità di Tehran in quella parte di mondo. L’Iran ha già cooperato, pur se non ufficialmente, con gli stessi Stati Uniti nella liberazione di alcune località sotto il contro dello Stato Islamico, come ad Amerli lo scorso agosto 2014 in Iraq. La vera sfida che gli Stati Uniti e l’Europa dovranno affrontare, se non si vorranno vanificare gli sforzi del negoziato sul nucleare, sarà quella di garantire a quei paesi che guardano con sospetto al reintegro dell’Iran all’interno della Comunità Internazionale, adeguati impegni per disinnescare il pericoloso conflitto tra paesi sunniti e paesi sciiti.
Perché gli Usa non tollerano l’intervento russo in Siria?
Sebbene sia gli Stati Uniti che Israele siano stati avvisati con un’ora di anticipo, prassi non proprio elegantissima, dell’inizio dei bombardamenti russi in Siria e nonostante vi sia una formale richiesta da parte del regime di Assad di assistenza militare alla Russia, cosa che non può dirsi per quanto riguarda i raid della coalizione internazionale, l’intervento è percepito dagli Stati Uniti come un’ulteriore variabile che va a complicare un quadro di per sé già complesso. Nello specifico la sensazione che si ha in queste ore, dove l’aviazione russa avrebbe colpito sia alcuni gruppi ribelli sia la capitale dell’Isis in Siria, Raqqa è che sul campo le posizioni tra Usa e Russia siano distanti ma che a livello strategico il dialogo sia già in una fase avanzata. Nonostante le preoccupazioni del Generale Philip Breedlove, Comandante delle Forze Nato in Europa, secondo il quale la priorità di Mosca è quella di proteggere Assad e questo spiegherebbe il dispiegamento di sofisticati armamenti antiaerei, gli Usa non hanno fatto nulla per impedire il rafforzamento della presenza militare russa in Siria e questo lascia intendere quali siano le vere priorità dell’Amministrazione americana sempre più rivolta alla possibile competizione con la Cina e sempre più riluttante ad assumersi impegni onerosi in Medio Oriente. Se si considera tutto questo si comprende come nonostante Obama continui a ritenere disastrosa la visione di Mosca sul conflitto siriano e si dichiari contrario ad una riabilitazione di Assad, la strada di una possibile soluzione politica sia ancora alla portata.
L’America continuerà ad addestrare ribelli per destabilizzare la Siria?
Diciamo in tutta onestà che i risultati sin qui raggiunti da questi gruppi è poca cosa a fronte di un programma di addestramento costatato all’incirca 500 milioni di dollari. Le dimissioni dell’ex generale John Allen, inviato speciale per la Coalizione internazionale contro lo Stato Islamico, dovute anche al disastroso esordio sul campo di battaglia della “Divisione 30”, decimato all’inizio di settembre, e arresasi in un batter d’occhio ad Al Nusra, così come la notizia confermata anche dal Comando Centrale delle truppe Usa a Tampa in Florida secondo cui un altro gruppo sempre addestrato dalla Cia si è arreso senza combatter testimonia tutte le difficoltà che gli Stati Uniti stanno incontrando in questo teatro operativo. A questi numeri si aggiungono le recenti incursioni dei bombardieri russi che avrebbero colpito sia i combattenti addestrati dalla Cia sia il ben più consistente, sia per numeri che per aree di Siria sotto il suo controllo, raggruppamento dell’Esercito della Conquista, sostenuto militarmente e finanziariamente da Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Se vogliamo la scelta russa è un messaggio chiaro ai vari attori in campo perché indebolisce ad eccezione del Free Syrian Army, considerato peraltro l’unico interlocutore con il quale intavolare trattative in una fase di transizione, le forze ribelli che più stanno mettendo a repentaglio la contiguità territoriale tra Damasco e la costa siriana, dove appunto si trovano le basi di Latakia e Tartus. Questa scelta di colpire questi gruppi tramite bombardamenti precede verosimilmente una grande offensiva di terra in cui saranno protagoniste le restanti forze dell’Esercito di Assad e in particolare modo gli Hezbollah e le milizie iraniane. In tutta onestà l’unica forza sulla quale gli Usa e gli alleati della coalizione avrebbero potuto puntare per combattere l’Isis sul campo erano i Peshmerga curdi ma i precari equilibri iracheni e i sospetti che Baghdad nutriva su un eccessivo rafforzamento dei curdi, così come i timori della Turchia su un sempre maggior peso della comunità curdo siriana alle porte dei propri confini hanno evitato che ciò avvenisse.
Qual è il futuro della Siria? E, soprattutto, quale sarà il ruolo di Assad?
Mi interrogo sul futuro della Siria dal 2011 e onestamente ritengo che la Comunità Internazionale abbia avuto una grave responsabilità nel non aver cercato, sin dall’inizio, di favorire una ricomposizione tra le forze di opposizione moderate e il regime. Con l’ingresso dei gruppi fondamentalisti e l’irrigidimento del regime la Siria è diventata il campo di battaglia dei principali attori regionali dell’area. L’Isis non è stato altro che un ulteriore elemento che è andato ad innestarsi su una pianta che stava già morendo. Continuo a pensare che la Siria potrebbe smembrarsi in varie entità oppure assumere un assetto tale da garantire ampie autonomie alle varie comunità che compongono il mosaico siriano. Quello che sta avvenendo nel Rojava, il cosiddetto Kurdistan siriano, è il preludio di un processo simile a quello che ha portato alla nascita del Governo Regionale del Kurdistan nel Nord dell’Iraq. Lo stesso clan degli Assad potrebbe di fatto ritrovarsi ad amministrare, grazie all’aiuto militare di Iran, Russia ed Hezbollah, una piccola porzione del territorio siriano. Onestamente non credo che la Siria potrà tornare ad essere quello che era prima del 2011 ma al tempo stesso ritengo che la strada che molti attori regionali vogliono intraprendere sia quella di evitare il collasso delle strutture e delle istituzioni del regime per scongiurare quanto accaduto in Iraq o in Libia. Questo non vuol dire la permanenza a tutti i costi di Assad ed è probabile che il destino di quest’ultimo possa esser diverso dal destino del regime. Alla luce di quello che oggi si vede sul campo di battaglia è del tutto evidente che gli attori presenti in Siria, regime da una parte e ribelli dall’altra non sono in grado di gestire alcun tipo di transizione e quindi le sorti della Siria, così come il suo futuro assetto sono nelle mani di altri. Si tratta ora di capire in quanto tempo e con quali modalità verrà gestita la transizione ed evitare un’ulteriore militarizzazione del conflitto.
La stessa ipotesi di uno schema negoziale simile al 5 + 1 in versione allargata e con la partecipazione di Arabia Saudita e Turchia potrebbe facilitare il processo e metter fine alla più grande catastrofe umanitaria dai tempi della II Guerra Mondiale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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