È tornato Montalbano. Ha molti meno anni, ha molti più capelli, e del resto era difficile il contrario, ma nell’insieme è sempre lui: stesso commissariato, stesso carattere, stesse abitudini. A occhio, solo la fidanzata è differente: mora e riccia invece che bionda e liscia, sicula e non nordica, ma è anche vero che per le donne c’è sempre un parrucchiere, uno stilista o un nuovo lavoro nella strada che dalla giovinezza porta alla maturità... Per gli uomini, quelli come Salvo Montalbano, la moda è una parolaccia, il barbiere un optional, la professione una scelta di vita e anche se il tempo li cambia, essendo senza tempo non se ne accorgono.
Il giovane Montalbano è la nuova serie Rai (sei puntate, regia di Gian Luca Maria Tavarelli, debutto l’altra sera con il 27.99 di share pari a 7 milioni e 749mila telespettatori) che vede il trentenne Michele Riondino prendere il posto del cinquantenne Luca Zingaretti. Per quanto diversi, hanno la stessa fisicità e, passato il primo momento di spaesamento, una volta che il racconto è partito le due immagini finiscono per sovrapporsi e sembrare perfettamente conseguenti. Il «giovane» rimanda a ciò che poi sarà, il «vecchio» ha conservato ciò che è stato e insomma sono sempre quell’essere umano lì, solitario, un po’ scontroso, ribelle, misogino, infelice, perché così va il mondo e lui non lo può cambiare. Il merito va anche a una sceneggiatura che non ha buchi, a una ricostruzione d’interni e a una resa d’esterni esemplare, a una scelta intelligente dell’intero cast, a un lavoro di alto artigianato quale raramente è dato vedere nelle fiction nostrane.
Montalbano, si sa, è una creazione di Andrea Camilleri. Nei romanzi che lo hanno protagonista c’è un elemento linguistico molto forte e insistito, una sorta di dialetto siciliano reinventato, che personalmente non amo molto e che nella riduzione televisiva è stato sempre intelligentemente reso con parsimonia, favorendo così una caratterizzazione, ma evitando il macchiettismo. Al di là di ciò, il suo autore è un sapiente costruttore cinematografico di macchine narrative, ha il senso del dialogo e dei dettagli, e anche questo ha aiutato nel trasferire dalla pagina allo schermo il suo commissario. Sono milioni gli spettatori che non si perdono una puntata (nemmeno in replica) delle avventure di Montalbano ed è probabile che così sarà anche per questa miniserie. I grandi numeri, di per sé, non sono un indice di qualità e ci sono stati sceneggiati di successo che ancora gridano vendetta di fronte al buon gusto.
Montalbano però è un caso interessante perché mette insieme una serie di elementi su cui vale la pena soffermarsi.
Il primo è la Sicilia, che per gli italiani resta qualcosa di esotico, barbaro eppure per certi versi rassicurante. Non stiamo parlando della Sicilia vera, ma di quella che appunto ci appare sullo schermo, assonnata e assolata, passionale e atemporale, nobile e plebea, d’una bellezza indicibile di coste e di montagne, ricca di sapori e di odori. Vogliamo che sia così, sappiamo che non è così, ma non importa, si vive più di illusioni che di certezze. Il secondo è il tipo umano chiamato a raccontarla, Salvo Montalbano, appunto. Piace alle donne perché incarna una figura maschile che le donne stesse hanno contribuito ad affossare e di cui però sentono la mancanza: protettivo, cavalleresco, solido. Piace agli uomini perché ne riflette alcuni elementi ancestrali che la routine della vita ha finito con lo spazzare via: l’indipendenza, un certo gusto del rischio, il senso dell’onore e della parola data... Il terzo e ultimo elemento è una certa idea dell’Italia, più provinciale che metropolitana, più familista che statalista, fatta di rapporti umani solidi, di sostanza e non di spreco, di decoro e insieme di consapevolezza dei difetti altrui e di quelli propri, un Paese contraddittorio, ma a suo modo pacificato.
Da ragazzo, Montalbano è stato un contestatore, poi è entrato in polizia. Voleva e vorrebbe un mondo più giusto e nel suo piccolo si batte per questo.
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