Morales minaccia: nazionalizzerò il gas e il petrolio

Il neopresidente boliviano dichiara nulli i contratti con le multinazionali: «Ma non penalizzeremo le aziende, ci servono i loro servizi»

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

O ha esagerato nell’ebbrezza della vittoria o intende fare sul serio. Il governo americano non lo sa ancora e pertanto rinvia, almeno ufficialmente, il giudizio sulle parole esplosive con cui Evo Morales, neo presidente della Bolivia, ha inaugurato il proprio mandato prima ancora della proclamazione ufficiale dei risultati. Lo ha fatto alla radio cubana con una dichiarazione d’amore a Fidel Castro e alla sua rivoluzione e un impegno a emularli e ad unirsi con lui nella lotta. «Voglio dire al popolo cubano, ai suoi dirigenti, al suo governo tutto il mio grazie per il comportamento esemplare con cui ha insegnato all’America Latina e al mondo come si difende la dignità e la sovranità contro l’imperialismo. Ora ho la possibilità di essere unito a Fidel Castro in questa lotta alla ricerca della pace e della giustizia sociale. A lui e a tutto il popolo cubano va il mio saluto speciale e rivoluzionario».
In gran parte Washington se l’aspettava, anche se il tono ha sorpassato le previsioni più pessimistiche. Ma per ora la reazione americana è «fredda». «Staremo a vedere - ha detto Condoleezza Rice -: faremo come con un qualsiasi presidente eletto. Seguiremo il comportamento di Morales e da questo dipenderà il corso futuro delle relazioni fra Bolivia e Stati Uniti». Fra le righe, e nei corridoi dei Dipartimento di Stato, c’è maggiore allarme, che riguarda sia la tirata generica contro l’«imperialismo» sia i programmi concreti che Morales cercherà ora di fare approvare dal Parlamento di La Paz, che includono la nazionalizzazione (anche se non in forma di esproprio) delle considerevoli risorse boliviane di gas naturale e petrolio.
La questione degli idrocarburi è stata da subito oggetto delle prime dichiarazioni del neopresidente. «I contratti per lo sfruttamento dei giacimenti - ha detto Morales al quotidiano spagnolo El Paìs - sono illegali e anticostituzionali. Ci sono clausole che concedono alle multinazionali un diritto di proprietà all’uscita dei pozzi. È necessario rivederli, poiché dal punto di vista del diritto sono nulli». Tuttavia, ha precisato Morales, non vi saranno azioni di forza nei confronti delle multinazionali: «Abbiamo bisogno dei loro servizi per sfruttare i giacimenti. Li pagheremo per questo, non esproprieremo i loro beni, la sicurezza giuridica sarà garantita. Lo Stato, però, deve controllare la catena di produzione e commercializzazione».
Evo si è impegnato anche alla sospensione delle operazioni di sradicamento delle piantagioni di coca volute da Washington nel quadro della guerra internazionale alla droga. Deve la propria ascesa proprio alla lotta contro queste misure, condotta come presidente del «sindacato dei coltivatori di coca», che fornisce il massimo reddito a centinaia di migliaia di famiglie contadine.
Al di là di questo c’è a Washington la preoccupazione per una eventuale svolta autoritaria a La Paz. Morales, a differenza di altri «rivoluzionari», è stato eletto democraticamente e quindi con legittimità; egli deve ora scegliere fra i due comportamenti assunti finora dai nuovi leader di sinistra in molti Stati dell’America Latina (che sta rigettando l’esperimento «neoliberale»): quello costituzionalmente corretto di Lula in Brasile e quello demagogico di Chavez in Venezuela. Non è solo lo stile oratorio a collocare Morales più vicino a quest’ultimo: il regime di Caracas, che dispone di una rilevante base finanziaria dovuta all’alto prezzo del petrolio, da tempo incoraggia la Bolivia a utilizzare le risorse del sottosuolo per sottrarsi all’influenza americana. Chavez si è impegnato fra l’altro a finanziare la costruzione di un gasdotto che dia alla produzione boliviana uno sbocco al mare per indirizzare le esportazioni verso la Cina, con cui il Venezuela va stringendo saldi rapporti commerciali.


Un altro «contatto» pericoloso per il nuovo governo boliviano è quello con la Colombia, che ha con il vicino meridionale due cose in comune: la coltivazione di coca (e un ruolo assai maggiore nel narcotraffico) e la spinta populista comune a tutti gli Stati andini, compreso un forte movimento di guerriglia che dura da decenni. Proprio in questi giorni sono ripresi i colloqui fra il governo e l’Eln, Ejército de liberación nacional. Significativamente, la sede «neutra» scelta per questa fase dei negoziati è Cuba.

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