
I dati, quelli rivelati da Assoconcerti, parlano chiaro: il settore della musica dal vivo raccoglie un gigantesco consenso di pubblico e produce anche una notevole ricaduta economica, che non è soltanto legata agli incassi ma pure al cosiddetto indotto, decisamente superiore. Ma, nonostante ben 25 anni fa la musica popolare contemporanea sia stata riconosciuta dalle istituzioni (come ha ricordato Francesco Giambrone, presidente di Agis), il legislatore non mostra adeguata attenzione sia sotto il profilo normativo che sotto quello degli investimenti.
Di questo, ma non solo, si è parlato a Roma qualche giorno fa nella splendida Sala Spadolini del Ministero della Cultura a pochi passi dal Pantheon, mentre veniva presentato lo studio La canzone popolare live - Dati e prospettive che snocciola non soltanto cifre ma delinea pure uno scenario positivo e talvolta sottovalutato. Sottovalutato perché, come ha giustamente sottolineato il sottosegretario alla Cultura con delega alla Musica Gianmarco Mazzi, «la canzone popolare italiana è tra i repertori più apprezzati al mondo, è cultura, è industria. Rappresenta il 60% dello spettacolo dal vivo in Italia e, secondo i dati della Siae, continua a essere uno dei motori principali dell’industria culturale».
E le cifre sono esplicite. Nel 2024 la spesa del pubblico ha sfiorato il miliardo di euro (898 milioni) e le proiezioni per il 2025 sono soddisfacenti perché solo i concerti romani di Cesare Cremonini, Kendrick Lamar e Ed Sheeran hanno contabilizzato una presenza complessiva di 911.333 spettatori. Ma restiamo al 2024. Gli spettatori sono stati oltre 24 milioni per i quasi 39mila spettacoli di musica pop, rock e leggera. E se i costi di produzione sfiorano gli 800 milioni, un dato molto significativo è quello legato all’indotto che è, in sostanza, tutto l’insieme di spese «per» un concerto, ossia i viaggi, i pernottamenti, il vitto eccetera. Tanto per capirci, Milano è in testa a questa classifica con circa 400 milioni di indotto,
ma, soltanto con i concerti di Coldplay e David Gilmour, Roma ha prodotto 170 milioni. Realtà prestigiose come il Lucca Summer Festival arrivano a 77 milioni di euro (qualche anno fa solo i Rolling Stones sfiorarono i 20 milioni di indotto) mentre «festival boutique» come La Prima Estate di Lido di Camaiore superano i 7 milioni. Una realtà alla quale spesso non si fa caso.
Ancora qualche dato. I concerti di Gigi D’Alessio a Napoli hanno «prodotto» quasi 18 milioni mentre Vasco Rossi ha prodotto ricadute economiche per 86,2 milioni di euro, quelli di Taylor Swift per 73,2 milioni e gli Stray Kids hanno portato al mercato spese ulteriori (cioè oltre al biglietto) per 24,9 milioni di euro. Secondo il professor Alessandro Leon, presidente dell’Associazione per l’Economia della Cultura, se gli spettacoli dal vivo sono passati dai 31mila del 2022 ai 39mila del 2024 «non è imputabile al rimbalzo post-Covid perché l’aumento nel volume di affari è strutturale e dovuto a un cambiamento nelle scelte del pubblico».
In questo contesto si inserisce la giusta riflessione del presidente di Assoconcerti, Bruno Sconocchia: «Questo comparto non gode di alcun sostegno da parte dello Stato. Per troppo tempo abbiamo subito, e ancora stiamo subendo, il preconcetto della cultura con la “c” minuscola. La musica è una, non esiste la distinzione tra colta e leggera. È una distinzione che esiste solo in questo settore. Tanto per fare un esempio, tra
La fanciulla del West del 1910 di Puccini e Blowin’ in the wind del 1963 di Bob Dylan qual è la musica colta? È una provocazione, ovvio, ma il nostro settore è un pezzo della cultura nazionale e mondiale ». Alla fine, in questo panorama si stagliano le mancanze strutturali (ad esempio solo tre palasport, Roma, Milano e Bologna, possono contenere più di diecimila spettatori e il Sud è completamente «scoperto»)e il relativo ma rumoroso disinteresse della politica, per decenni concretamente zavorrato dal pregiudizio che tanto «sono solo canzonette». Ora qualcosa pare cambiare, anche se
Mazzi: «La nostra canzone popolare è tra i repertori più famosi al mondo». Ma non ci sono le strutture: solo tre palasport hanno più di diecimila posti e nessuno è al Sud il condizionale è sempre doveroso. «Con il sottosegretario Mazzi - ha spiegato Giambrone - stiamo lavorando tanto sul Codice dello Spettacolo, elemento importante per avere una visione nuova.
Usciamo dal pregiudizio che questo comparto non debba essere sostenuto dallo Stato». Oltretutto, si tratta di un settore difficile, legato alla stagionalità e alla precarietà contrattuale che spesso fa comodo denunciare soltanto a parole senza fare poi nulla di concreto.