Cultura e Spettacoli

N. come Napoleone. Da 250 anni (meno 300 giorni)

Soltanto durante l'esilio all'Elba Bonaparte tentò di venire a patti con il destino. Prima e dopo lo piegò al suo volere

N. come Napoleone. Da 250 anni (meno 300 giorni)

Dall'isola d'Elba. «Eh, è davvero piccola la mia isola!» si era sorpreso a mormorare Napoleone quando, presone possesso, l'aveva contemplata dalla cima del monte Giove, il suo punto più alto. Un paio di migliaia di abitanti, un paio di centinaia di chilometri quadrati, uno sputo in mezzo al mare per uno che aveva avuto l'intero continente come terreno di piacere, di caccia e di manovra. Nei momenti di esaltazione, riusciva a trasfigurarla: «È un'isola per un'anima di roccia. Io sono una particella di roccia scagliata nello spazio». Nei momenti di scoramento, lo squallore di una sovranità da operetta gli toglieva il respiro: «Cancellate dagli attestati la formula sovrano dell'Isola d'Elba. È ridicola».

Chi oggi visiti la Palazzina dei Mulini e Villa San Martino, le due «dimore imperiali» di un regno durato in tutto trecento giorni, riesce ancora a cogliere l'assurdità di saloni dell'imperatore, camere dei valletti, camere e anticamere dei generali, boudoir e saloni delle feste, una raffica di nomi e funzioni a nascondere l'esiguità degli spazi, l'affastellarsi delle cariche, il cerimoniale che si sbriciola a petto della promiscuità forzata. Sotto questo aspetto, l'imponente galleria Demidoff, sulla cui terrazza Villa San Martino oggi si erge, fatta costruire nel 1851 con il suo frontone in stile dorico e sorretta da due file di enormi colonne di granito, dà l'idea di come la leggenda postuma cercasse di rievocare una grandezza antica che non tenesse conto di quel campagnolo intermezzo isolano, illudendosi di negarlo con una solennità monumentale di fatto incongrua. È la stessa sensazione che dovette provare Napoleone il giorno del suo sbarco, il 4 maggio del 1814 quando, scortato nella sede comunale della Biscotteria, si era ritrovato di fronte a specchi ricoperti di carta dorata, a una poltrona rivestita di una stoffa scarlatta e trasformata in improbabile trono...

Nel 250º anniversario della nascita, la mostra multimediale «Un Grande di Francia in Toscana» allinea riproduzioni anastatiche di lettere autografe, stampe, i soldatini della Collezione Pradieri, video, luci ad hoc e audio a rievocare suggestioni ed emozioni di quel tempo. Allestita nella Palazzina dei Mulini, sede del Museo delle Residenze Napoleoniche, le fanno da contorno non gli arredi originali, dispersi, ma altri d'epoca, porcellane, letti pieghevoli da campo, copie di dipinti illustri, David, Prud'hon, e di statue firmate Canova, dormeuses, vasi, calamai, libri. Attiguo alla vicina Chiesa della Misericordia, il Museo dei Cimeli Napoleonici mette in mostra la maschera funebre e la riproduzione bronzea della mano di Napoleone lì custodita.

Se si scorrono i trecento documenti ufficiali che fanno parte della corrispondenza tenuta da Napoleone con il proprio apparato governativo, uno al giorno, in pratica per quei 300 giorni in cui quest'uomo che volle farsi re cerca di venire a patti con un destino che non sente come suo, la sensazione è quella di una mosca che come impazzita cerca un nuovo punto dove indirizzarsi, sperando che prima o poi coincida anche con il buco da dove finalmente prendere il volo. «Io agisco, trasformo» sembra dire in ogni dispaccio in cui oggi introduce la coltivazione della patata; domani fa piantare dei castagneti a settentrione, oliveti e viti a meridione; dopodomani fa aprire strade mentre intanto obbliga ciascun abitante dell'isola ad avere delle latrine, la lotta implacabile contro quel fetore isolano che nello sbarcare lo aveva fatto quasi svenire...

Disegna da sé persino la bandiera di un regno che sa inesistente, bianca attraversata da una banda diagonale rossa con tre api; sopprime dogane e gabelle; abolisce bolli e iscrizioni nei registri; riduce le restrizioni in materia commerciale; fa abbattere la tonnara che impedisce la vista dalla Villa dei Mulini, multa il proprietario genovese che minaccia di fargli causa e, a scuse sopraggiunte, lo risarcisce in parte. Si compiace di vittorie da poco, e lo sa, ma è più forte di lui... Durante una visita alle miniere di ferro il loro amministratore, Pons, gli sembra un volto conosciuto: ma sì, era con lui all'assedio di Tolone... «Sono rimasto repubblicano e giacobino» gli dice però quest'ultimo. «Non esigo nient'altro che la fedeltà alla Francia» è la risposta. Poi, una volta solo con il suo aiutante di campo: «Ecco uno che non è stato cortigiano quando esserlo andava di moda. Ci si può fidare». Ormai non sa più di quanti possa ancora dire lo stesso. Eppure...

Alla vita amministrativa, che contempla anche il dover fare i conti con il denaro che manca, le spese inutili, le economie necessarie, le bizze della sorella Paolina che assolda musici e cantanti, si aggiungono le beghe, come dire, militari: c'è una piccola armata da gestire, 700 fra graduati e soldati, una miniflotta, brigantini e feluche, da tenere in ordine; persino una scuderia con i suoi cavali preferiti, l'arabo Vagram, il «veterano di Russia» Tauris, il normanno Intendent, lo spagnolo Emir... Li monta, cavalca, ispeziona, torna a casa, si sdraia, detta e poi ancora detta, un modo come un altro per ammazzare il tempo...

Soprattutto c'è la sensazione che più i giorni si susseguono, più la tela di ragno che lo imprigiona si infittisca. Da quando ha abdicato non gli hanno più fatto vedere il figlio, la moglie non risponde alle sue lettere, gli accordi economici non vengono rispettati, le voci su nuovi, più lontani e definitivi «esili» si accavallano, insieme a quelle di più vicini e sicuri sicari in procinto di sbarcare sull'isola per «uccidere il tiranno». Vestito della sua uniforme dei Cacciatori della Guardia imperiale, stella della Legion d'onore e decorazione della Corona di ferro di re d'Italia, Napoleone finge di essere il re di un regno che non c'è, ma sa che è una finzione inutile. Era arrivato accolto con un Te Deum solenne come ringraziamento, secondo i voti del vicario generale dell'Elba, Filippo Arrighi, che salutava con lui «l'unto dal Signore». Si ritrova, quando tutti dormono, a contare i minuti e ad accorgersi che sono divenuti eterni.

Dalla Francia, dove ha le sue spie e i suoi informatori, gli giungono i malumori per una restaurazione che non soddisfa chi combatté per la Rivoluzione prima, per l'Impero dopo, il rimpianto per una grandeur che ora brilla nel ricordo proprio perché si riflette nelle miserie del presente. Se tornassi, pensa, se riprendessi in mano il mio destino... «Ebbene, grognard, ti annoi?» chiede a un veterano di guardia. «No, sire, ma non mi diverto molto». «Sbagli, bisogna prendere le cose come vengono. Non sarà sempre così».

No, non sarà sempre così e la lettera che finalmente gli giunge dalla moglie, l'1 gennaio del 1815, è la goccia che fa traboccare il vaso: «Spero che quest'anno sarà più felice per te. Almeno sarai tranquillo nella tua isola e ci vivrai contento, per la gioia di tutti coloro che ti amano e ti sono legati come me». In pratica, gli fa sapere di rassegnarsi, che morirà lì, che morirà solo... Pazienta ancora un mese, il tempo per i preparativi, perché ci siano notti senza luna, perché il blocco navale sveli i suoi punti deboli. Infine, il 16 febbraio riprede il destino nelle sue mani e salpa: «Io parto. Lascio mia madre e mia sorella alla protezione degli elbani. I suoi abitanti possono contare sul mio affetto e sulla mia speciale protezione». In mare, l'Incostant su cui è imbarcato incrocia il brigantino francese Zephir, comandato dal capitano Andrieux, bonapartista, va da sé: «Dove andate?». «A Livorno. E voi?». «A Genova. Avete commissioni?». «No». «E come sta il grande uomo?». «A meraviglia».

Ancora per cento giorni il «grande uomo» si illuderà di essere il Napoleone di sempre.

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