Cultura e Spettacoli

Nanda Pivano, la donna che dava voce ai sogni

E' stata una Madonna del beat, una finestra aperta sulla letteratura Usa. Prestava la sua attenzione solo agli scrittori che amava: "Il resto non mi interessa"

Nanda Pivano, la donna che dava voce ai sogni

Era furiosa, voce fredda, dura, nessuna confidenza: «Con te non parlo, scrivete su di me cose false, assurde». Era nera, per un articolo o un commento che non le era piaciuto. Tu, ancora più freddo, reclamavi la tua innocenza. Lei poco a poco si sgelava, e parlando di Safran Foer e di Eggers si fece dolce, piccola, curiosa. Era la doppia anima di Nanda. Lei ti scrutava con quegli occhi da signora ribelle e diceva: «Tu con me devi usare la parola passione se no non capisci niente. Devi dire che i miei scritti sono viscerali: è questa la mia chiave. Hai capito?». Nanda testimone, oracolo, Nanda che narra la vita dietro la letteratura, Nanda Madonna beat e pellegrina, Nanda musa, amica, finestra sull’Atlantico.

Era difficile, ammettiamolo, non fare i conti con lei, con i suoi umori, le parole, le passioni. Basta sfogliare a caso tra le sue prefazioni, tra gli scrittori di cui è diventata compagna di viaggio, voce tradotta. A caso, così: L’ultimo dei Mohicani di Fenimore Cooper (1946), Storia di me e dei miei racconti di Sherwood Anderson (1947), Morte nel pomeriggio di Ernest Hemingway (1947), Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald (1949), Non si fruga nella polvere di William Faulkner (1951), Sulla strada di Jack Kerouac (1959), Hydrogen Jukebox di Allen Ginsberg (1964), Meno di zero di Bret Easton Ellis (1986), Libra di Don DeLillo (1989), Fight Club di Chuck Palanjuk (1998). L’America della Pivano è qui ed è un po’ anche la nostra. Anche con i suoi errori, con quel soffio d’ideologia che rende rosso acceso l’individualismo anarchico di Jack e spoglia il maschilismo di Ernest. Ma era il suo tempo e non è giusto rubarglielo.

L’incontro con l’America è un amore liceale, in una Torino in camicia nera, e un professore antifascista. È Cesare Pavese (nella foto). «Avrei passato ore ad ascoltarlo, con una voce che avrebbe fatto morire d’invidia qualsiasi attore. Somigliava vagamente a quella di Hemingway». Una sera torna a casa e trova in portineria Antologia di Spoon River. Edgar Lee Masters. E un biglietto: traducilo. È l’inizio. Legge Whitman e Anderson. Scopre Hemingway. Traduce Addio alle armi e le SS la spediscono in carcere. S’innamora dei suoi paragrafi «stellanti». S’incontrano nel 1948. Lo scrittore è stanco e già depresso.

L’uomo che chiamano «Papa», innamorato di tori e toreador, è più fragile di quanto si pensi. Tra i due è la ragazza, che ormai ha quasi trent’anni, ad avere forza e futuro. È una grande amicizia, nulla di più, nulla di meno. Amore? «È una domanda che mi hanno fatto spesso. Ed è la più odiosa. Non sono mai finita a letto con lui». L’uomo di Nanda non scriveva romanzi. Era l’architetto Ettore Sottsass. È con lui che arriva a Milano. È la Milano degli anni ’50, quella di Vittorini e di Strehler, del Politecnico e del Piccolo. C’è il Corsera di Montale, Buzzati e Banchelli. Lei scrive per Epoca, Aut Aut, Successo, Corriere d’Informazione. Ha quasi quarant’anni e non è mai stata dall’altra parte, lì dove sono gli Stati Uniti. Ci va nel ’56, in tempo per vedere l’ultimo atto del maccartismo. La svolta però arriva un po’ più tardi: «Gli scrittori della beat generation erano cinque: Kerouac era il genio. Ginsberg era il pr. Burroughs era il perverso. Corso era il più grande poeta d’America. Cassady era la loro musa». La storia la conoscete. La Pivano l’ha raccontata in libri e parole. Sono stati i suoi ragazzi. Li ha tradotti e li ha portati in Italia. Una sera a San Francisco se ne va in giro con Neal Cassidy, il Don Giovanni maledetto che ha ispirato On The Road. Lui la guarda e dice: «Tu non bevi, non fumi, fai l’amore solo con tuo marito. E non mi capisci quando parlo. Chissà perché hai voluto conoscermi?». La risposta, in fondo, non era importante. La Pivano ha sempre agito d’istinto. Il suo rapporto con la letteratura è passione o indifferenza. L’ultima pagina di I miei quadrifogli dice tutto di Nanda. Nove anni fa, già quasi un testamento: «Un quadrifoglio a te Mister Papa, maestro di tutti. Un quadrifoglio a te, infelice Pavese. Un quadrifoglio a te, disperato Kerouac...». Ha fatto sempre così. Non ci sono domande, non ci sono ragioni. Non sai perché dica sì alla saga di Safran Foer, e al suo villaggio ebraico nel cuore dell’Ucraina, e liquidi Jonathan Franzen con un: «The Correction? Noioso». Non c’è ragione. «Io - diceva - mi sento sempre coinvolta e non valuto niente. Questo lo fanno i professori. Io quando leggo una pagina mi innamoro oppure non mi innamoro. E se non m’innamoro non ne parlo, perché non mi interessa più». Nanda Pivano aveva novantadue anni.

Ha ascoltato l’America e ha regalato quadrifogli.

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