Daniela Fedi
da Milano
Ci sarà mai una Waterloo per Dolce&Gabbana? Speriamo proprio di no perché la loro bravura è tale da dare lustro all'Italia della moda, una ricchezza per tutti e un blasone che siamo fieri di portare. Non a caso c'è stata una vera e propria standing ovation all'uscita dei due stilisti in passerella dopo l'indimenticabile sfilata di ieri. La collezione era dedicata a Napoleone o meglio alle sue donne protagoniste tra l'altro del bellissimo libro di Stephan Glazer (ed. Boroli) intitolato appunto «Le donne di Napoleone». Il rischio di fare troppo costume e di cadere nel cosiddetto stile «pompier» che dell'impero è l'esagerazione, era altissimo. Invece i due stilisti hanno fatto una straordinaria operazione di fantasia nel mescolare il direttorio alla contemporaneità grazie a uno studio di forme e proporzioni che da solo merita l'applauso più entusiasta.
Così gli strepitosi cappotti con l'alta martingala che sulla schiena fermava una teoria di pieghe a cannone, erano al tempo stesso femminili e austeri: ripresi nelle decorazioni e nel taglio dai pastrani militari, ma calibrati con precisione chirurgica sul corpo di una donna. I tailleur erano ingegnose rielaborazioni delle divise degli ussari imperiali con tanto di fregi d'ordinanza a delineare le giacche dotate di code oppure corte come boleri e in questo caso come originate dalle grandi mostrine da maresciallo di Francia. Onnipresenti perfino sui pantaloni (sia lunghi che fermati sotto al ginocchio come le polpe del grande corso) le tipiche file di bottoni dorati e un'intelligente epurazione del colore a favore dei toni neutri di avorio e panna salvo due felici eccezioni in rosso-sangue, l'oro degli abiti e un evanescente punto di verde per qualche modello da sera. Qui si è raggiunto il sublime con una quindicina di pezzi divinamente ricamati (i disegni venivano dall'archivio di Paul Poiret) e decorati con piume dipinte a mano per riprodurre il motivo animalier, perle e foglie d'alloro dorate. Insomma Dolce e Gabbana sono riusciti a tradurre in moda quella che Paul Barras chiamava «l'affascinante arroganza di Napoleone». E visto che oggi per conquistare un uomo sembra indispensabile una replica dell'assedio di Verdum, vale la pena di osare una bellezza imperiale.
Tutta diversa ma assolutamente divina la sfilata di Max Mara con le semplici gonne rimborsate sopra a sottili fuseaux e gli strepitosi capispalla tra cui si ricordano un bellissimo montgomery in paillettes dorate e una serie di mantelle da perdere la testa. Ha invece perso emozione precipitando a tratti nella cupezza, lo stile di Antonio Marras che pure è sempre più bravo come dimostrano certi pezzi di rara bellezza come il piumino in voile di seta che ingabbia l'ovatta lasciata volutamente a vista sotto ai preziosi ricami in jais, oppure il cappotto interamente decorato da frammenti di specchi luccicanti. Bella anche la maglieria (il cardigan a rombi davanti finito dietro dalla maglia plissé era uno spettacolo) ma purtroppo le forme erano nella maggior parte dei casi troppo complicate con un generale effetto di pesantezza. Forse il vero problema è che da Marras ci si aspetta il massimo senza pensare alle grandi difficoltà che con caparbio coraggio lo stilista affronta armato solo del suo talento. Infatti chi si può permettere il lusso di demandare ad altri gli aspetti pratici del suo lavoro non sbaglia un colpo.
È il caso di John Richmond che dietro alle spalle ha una formidabile organizzazione commerciale orchestrata da Saverio Moschillo.
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