Roma Un mese. Salvata la Finanziaria, che verrà approvata dal Senato il dieci dicembre, Silvio Berlusconi avrà giusto un mesetto per salvare pure il suo governo. Il tredici mattina il Cavaliere si presenterà infatti a Palazzo Madama per la mozione di sostegno Pdl-Lega e, nel pomeriggio stesso, sarà alla Camera per quella di sfiducia dell’opposizione. Il giorno dopo, il voto doppio e simultaneo dei due rami del Parlamento. E dopo ancora la pagina è bianca ma tutti ormai si preparano alle elezioni anticipate.
Dunque: verifica dopo l’Immacolata, in contemporanea alla Camera e al Senato, consultazioni quasi sotto l’albero, urne aperte a febbraio. Questo in pillole il calendario della crisi che esce fuori al termine del vertice sul Colle tra il capo dello Stato e i presidenti delle Camere. Salvo sorprese o recuperi dell’ultima ora: un mese è tanto. Sorrisi, diplomazia, qualche sguardo di traverso, un po’ di imbarazzo per la controversa posizione di Gianfranco Fini dal «doppio cappello». Ma alla fine il salmo quirinalesco finisce come al solito in gloria, con l’intesa sulla priorità alla legge di bilancio e l’accordo sulle date. E anche il derby Schifani-Fini, la guerra delle mozioni che ha animato gli ultimi giorni, si conclude con un pari e patta.
Dopo una settimana di discrete mediazioni e di felpati contatti, culminati in un’ora mezzo di colloquio a tre, Giorgio Napolitano ha ottenuto il massimo possibile, riuscendo a incanalare la crisi in un «binario istituzionale». La sua soddisfazione trapela nel comunicato diffuso dopo il vertice. Innanzitutto, precisa, non si tratta di un summit protocollare, di un rito bolso, di un pesce freddo da Prima Repubblica. Tutt’altro: «Il presidente della Repubblica ha ricevuto il presidente del Senato e il presidente della Camera secondo una prassi consolidata di consultazione risultata sempre fruttuosa in delicati momenti delle vita istituzionale».
E infatti: «L’incontro odierno - si legge ancora - ha permesso di registrare la concorda adesione delle forze parlamentari all’esigenza di dare la precedenza all’approvazione finale delle leggi di stabilità e di bilancio». Necessità, si sottolinea, «nei giorni scorsi richiamata dal capo dello Stato nell’interesse generale del Paese».
Prima quindi l’economia e il salvataggio dei buoni del Tesoro. Dopo, «subito dopo», si procederà «all’esame della crisi politica, culminata nella presentazione alla Camera di una mozione di sfiducia al governo ai sensi dell’articolo 94 della Costituzione e nella richiesta del presidente del Consiglio di rendere comunicazioni» al Parlamento. Il Cavaliere voleva giocare la prima partita in casa, al Senato, dove i numeri sono dalla sua parte, sperando poi di ribaltare la situazione sull’onda di un sì. L’opposizione pretendeva al contrario di cominciare la conta a Montecitorio, dove il premier senza i finiani non ha più la maggioranza.
Alla fine, dopo essersi affidato alla «costruttiva intesa» di Fini e Schifani, il capo dello Stato ha trovato la via stretta della soluzione salomonica: il voto contemporaneo. Non è stato però Napolitano a indicare le date. Ci hanno pensato Schifani e Fini, che dopo il vertice si sono appartati in una saletta e hanno compulsato il calendario. Il compromesso viene in parte incontro alle richieste di Berlusconi, che potrà presentarsi prima alla tribuna più gradita, quella di Palazzo Madama. Ma calma pure le proteste del centrosinistra, che voleva che si cominciasse con la sua mozione di sfiducia, perché presentata per prima alla Camera.
Felice il Cavaliere: «Era quello che volevo». Più freddo Bersani: «Berlusconi avrà quindici giorni di tempo in più per fare melina». E queste reazioni fanno parecchio da termometro. L’intesa sancita sul Colle, la calendarizzazione della crisi offre del tempo al premier per cercare i numeri alla Camera o, anche, ai tanti pontieri, di riprovare a cercare una nuova intesa nel centrodestra che porti a un governo Berlusconi bis.
Dall’altro lato, si sta scolorendo l’ipotesi di un esecutivo tecnico o di emergenza nazionale. Un po’ per le difficoltà note delle opposizioni a mettersi d’accordo sia pure su un programma minimo e una riforma elettorale condivisa.
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