C’è una sentenza datata 6 febbraio 2025 numero 5.000 del Tribunale del Lavoro di Ginevra - rivelata da Il Giornale - che racconta un retroscena di cui nessun giornale vuole occuparsi.
Si tratta di ciò che successe al ricercatore di Venezia Francesco Zambon, whistleblower il cui report sulla gestione della pandemia «caotica e creativa» da parte del governo di Giuseppe Conte e Roberto Speranza venne ritirato su pressioni di Pechino con lo zampino dell’allora ministro della Salute.
Come sappiamo, Zambon si è rivolto al Tribunale del Lavoro di Ginevra nel 2023 per ottenere il giusto ristoro dai «soprusi di cui l’organizzazione si rese complice» nel maggio 2020 e relativi alla pubblicazione del famigerato rapporto fatto sparire in 24 ore. Rapporto che, come scrive lo stesso Zambon nel suo libro autobiografico «Il Pesce Piccolo» «erano ben poca cosa rispetto a quelli che l’Oms riservò a me nei mesi successivi, fino a spingermi alle dimissioni».
Nel marzo 2021, per le sue dimissioni, Zambon venne dipinto come un martire, un eroe nazionale. Zambon era l’uomo che si era dimesso perché si rifiutava di accettare compromessi sporchi sulla mancata indipendenza dell’Organizzazione mondiale della sanità. Una mancata indipendenza di cui si sarebbe apparentemente accorto solo nel maggio 2020 e dopo molti anni spesi alle dipendenze dell’Oms.
Ironia della sorte, solo qualche giorno prima della sentenza dell’Ilo (ignorata dalla stampa italiana e da Report), Zambon aveva rilasciato un’intervista su un quotidiano nazionale dichiarando «largamente condivisibili» le motivazioni per cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva deciso di ritirare gli Usa dal trattato dell’Oms. Tra queste motivazioni «largamente condivisibili» vi è »la dimostrata mancata indipendenza dell’Oms». Sempre nel suo libro «Il Pesce Piccolo», Zambon si definisce un whistleblower, ovvero «l’infame dell’Oms», «la spia, il traditore, colui che riporta le condotte dell’ambiente malavitoso, di cui prima faceva parte, alla giustizia». Un parallelo pesantissimo. Parole sue.
Peccato che secondo la sentenza di Ginevra (che Zambon contesta, naturalmente) lui non sarebbe affatto un whistleblower per una questione molto semplice: «Per determinare se un membro del personale abbia subito ritorsioni, tre elementi devono verificarsi contemporaneamente» tra cui «una segnalazione di illecito in cui il segnalante non è la presunta vittima e non ha alcun interesse personale nell’esito». Tradotto: un whistleblower è qualcuno che in maniera del tutto disinteressata segnala una situazione potenzialmente illecita che non lo coinvolge direttamente ma che potrebbe compromettere la sua organizzazione. Cosa che Zambon - essendo protagonista della vicenda - non poteva in alcun modo essere.
Zambon più che una spia è un pentito, qualcuno che essendo stato direttamente coinvolto in una organizzazione malavitosa decide autonomamente di diventare a pieno titolo un collaboratore di giustizia.
Ma è leggendo più nel dettaglio la sentenza che qualcosa non torna sulla narrazione comodamente agiografica di San Francesco Zambon da Venezia. Infatti, proprio nel marzo 2023, Zambon fa causa all’OMS per chiedere ai giudici svizzeri «di annullare la decisione dell’Oms di accettare le sue dimissioni». Sulla base di tale principio, «chiede di essere reintegrato – con un incarico continuativo e con il pagamento degli arretrati – nella sua precedente posizione P-5 di Coordinatore del Programma “Healthy Setting” oppure in un’altra posizione di livello P-5 che sia per lui accettabile e commisurata alle sue qualifiche». In alternativa, «egli chiede il pagamento di danni materiali pari a tre anni di stipendio al livello P-5» e «il risarcimento di danni morali e esemplari per un importo di 350.000 franchi svizzeri, nonché il rimborso delle spese legali per un ammontare di 40.000 franchi svizzeri, comprese quelle relative alla procedura di ricorso interna».
Una richiesta che stona profondamente con l’immagine pubblica di «infame dell’Oms» che i giornali hanno cucito intorno a Zambon, che a un certo punto ha deciso strategicamente di sparire dai radar. Nel quinto motivo di ricorso - si legge nella sentenza - il «ricorrente afferma che l’Oms ha erroneamente accettato le sue dimissioni senza una previa valutazione della sua condizione medica, che egli considera collegata alla presunta azione illegale dell’Organizzazione».
Insomma, Zambon sembrerebbe essersi pentito di aver lasciato un’organizzazione che aveva definito «non indipendente» sulla stampa nazionale, chiedendo da marzo 2023 che le sue dimissioni venissero considerate nulle. Insomma, pentito sì ma di essersi dimesso.
Da qui l’accusa all’Oms di non avere «organizzato una valutazione psichiatrica urgente prima di accettare le sue dimissioni». Peccato che il tribunale svizzero menzioni un certificato medico datato 1 marzo 2021, in cui lo psichiatra curante di Zambon dichiarò che il ricorrente «sembra capace di prendere decisioni relative al suo futuro, poiché il suo giudizio e le sue capacità critiche sono intatte», e consideri «utile un distacco definitivo dall’attuale luogo di lavoro, così che il ricorrente possa re-investire le sue capacità professionali in altre agenzie/organizzazioni».
Quando il 3 marzo 2021 Zambon si dimette, il 5 marzo l’Oms accetta. Per contestare la validità di queste dimissioni il ricercatore porta a suffragio due distinti certificati medici successivi rispettivamente di un anno e di un anno e mezzo alla data delle sue dimissioni: «Per quanto riguarda la condizione mentale del ricorrente dopo che egli si è dimesso, come certificato dal suo psichiatra nei certificati medici del 5 aprile 2022 e del 15 settembre 2022, il Tribunale osserva che tali certificati sono successivi alle sue dimissioni e, pertanto, non potevano essere presi in considerazione dall’Oms al momento delle sue dimissioni. In ogni caso, il certificato medico del 5 aprile 2022 si riferisce a fatti che si sono verificati dopo le sue dimissioni e che non possono mettere in dubbio la competenza legale del ricorrente al momento in cui egli presentò le sue dimissioni».
Ora, è legittimo cambiare idea e rivalersi contro il datore di lavoro che si ipotizza sia in torto.
Ma questo tira e molla mal si concilia con il ritratto di persona integerrima costruito intorno a Zambon, il whistleblower che si dimette di giorno per non cedere alle pressioni dei governi sull’Oms e di notte chiedere di rientrare dalla finestra con due certificati postdatati.