
La Corte di Cassazione ha stabilito che insultare il proprio superiore può costituire motivo valido di licenziamento, purché l’offesa sia di "notevole gravità" e tale da compromettere in modo irreparabile il rapporto fiduciario. La pronuncia conferma la sentenza della Corte d’Appello di Catania, che aveva ritenuto legittima l’interruzione del contratto nei confronti di una dottoressa dell’Associazione italiana assistenza spastici (Aias), sezione di Acireale. La lavoratrice, opponendosi a un incarico, aveva definito il suo capo "leccaculo" davanti a una collega. Un comportamento che i giudici supremi hanno qualificato come manifestazione di "sfida e disprezzo verso l’autorità".
Dal reintegro al nuovo licenziamento
Il caso è iniziato nel 2018, quando il presidente della onlus decise di interrompere il rapporto di lavoro con la dottoressa il 28 novembre, subito dopo l’episodio. In un primo momento, il giudice del lavoro aveva annullato il licenziamento, reintegrando la dipendente e imponendo all’Aias un risarcimento di dodici mensilità. Anche il tribunale di Catania, nel 2021, aveva confermato questa linea, ritenendo la sanzione sproporzionata.
Svolta in Appello: "Grave insubordinazione"
La situazione è cambiata nel 2023, quando la Corte d’Appello ha accolto il ricorso dell’associazione. Secondo i giudici, l’episodio integrava una "giusta causa di licenziamento", come previsto dall’articolo 32 del contratto collettivo nazionale Aias, che menziona "litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro" e "grave insubordinazione" tra i motivi validi di interruzione del rapporto. L’insulto, accompagnato dal rifiuto di obbedire e pronunciato davanti a una collega, è stato definito una condotta "grave e plateale".
La Cassazione: fiducia irrimediabilmente compromessa
La dottoressa ha provato a spiegare che la sua reazione era frutto di un periodo di "insoddisfazione lavorativa" e di condizioni psicologiche difficili. Ma la Cassazione ha respinto questa tesi, sottolineando che la gravità oggettiva della condotta basta da sola a "ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario", senza che possano rilevare la durata del rapporto o le difficoltà personali.
La Suprema Corte ha inoltre ricordato che la lavoratrice aveva già in passato mostrato una certa "inclinazione all’insulto e all’ingiuria", elemento ritenuto significativo per valutare la sua idoneità alla prosecuzione del rapporto professionale.