Nazionale

Petrolio, rifiuti radioattivi e 007 ammazzati: ecco il vero volto della Somalia Connection

Dagli 007 Vincenzo Li Causi e Mario Ferraro (morti in circostanze misteriose) al giudice Giovanni Falcone; dal traffico di rifiuti radioattivi, all'estrazione di petrolio e uranio. La Somalia Connection dal racconto inedito di un protagonista

Petrolio, rifiuti radioattivi e 007 ammazzati: la Somalia Connection raccontata da un protagonista

Quando ci siamo messi in contatto la prima volta con Mirko Martini di Cigala, il suo approccio è stato educato, ma comprensibilmente distaccato. Di lui si è scritto poche volte e tutte le volte lo si è dipinto come un oscuro faccendiere, naturale – da parte sua – una certa diffidenza verso i giornalisti.

Ciononostante, siamo riusciti a ottenere la sua fiducia: «Non ho mai rilasciato interviste» ci ha detto al principio della prima di tre sessioni telefoniche. Era luglio, ci eravamo ripromessi di conoscerci di persona prima di Natale. Il destino gliel’ha impedito. Mirko Martini di Cigala è morto il 10 novembre e immediatamente sarebbero [il condizionale in questa storia è d'obbligo, ndr] cominciate le stranezze: a partire dal cellulare e il computer spariti da casa, fino ad arrivare alle curiose presenze il giorno del suo funerale di cui ci hanno parlato persone a lui vicine.

Le stesse persone ci hanno confermato che Mirko stava raccogliendo della documentazione per una querela: “Roba di servizi segreti”, ci ha confidato un suo amico. Ma al di là del contenuto di questa querela, sembra che la ricerca di documenti sia iniziata proprio dopo la nostra intervista, che probabilmente ha risvegliato in lui ricordi chiusi per troppo tempo nei cassetti della memoria.

“Cosa vuoi sapere?”. Bella domanda. L’argomento che stiamo approcciando è vasto: vogliamo capire a fondo il legame tra Italia e Somalia. Un legame che negli anni ha prodotto un’impressionante scia di morti. Quello che abbiamo definito Somalia Connection. Partiamo dunque da lì, dal suo rapporto con quel paese:

“Se vai a toccare quel tasto, come è successo a me quando avevo 28-29 anni, ti fai molto male. Sono andato in Somalia la prima volta nel 1988. Ero andato lì innanzitutto per conoscerla, ma dopo due giorni ero già in contatto con Mohamed Siad Barre [dittatore della Somalia dal 1969 al 1991, ndr], che qualche mese dopo subì anche un attentato. Con lui ho sempre avuto rapporti abbastanza stretti. Nonostante fosse definito un sanguinario, era quello che materialmente riusciva a tenere unito il Paese”.

Quel “nonostante” è una nota stonata e glielo facciamo notare. La fama di Siad Barre come dittatore sanguinario è meritata, se pensiamo che nella guerra civile combattuta tra il 1988 e il 1990 le vittime civili sono state circa 50 mila. “Vero” conferma lui “ma nel bene o nel male, Barre riusciva a tenere la nazione sotto controllo. La Somalia, oggi come allora, è dominata dai clan familiari. Un sistema che ricorda un po’ quello delle ‘ndrine calabresi, ma ancora più caotico. Mentre ero lì, Barre mi mise a disposizione un battaglione di una ventina di uomini, consentendomi di girare il paese. Ho visto cose allucinanti, ho visto un paese che possedeva potenzialmente una ricchezza enorme in preda al caos”.

Dopo aver ascoltato queste parole, la domanda, o meglio, la considerazione sorge spontanea: non è strano che una persona qualunque vada a visitare un paese (dove, tra l’altro, in quel momento infuria una sanguinosissima guerra civile) ed entri subito in contatto con le più alte sfere governative? “Quando ho avuto il fermo a Bologna, con quaranta giorni di custodia cautelare (poi assolto dopo nove anni perché il fatto non sussiste), mi ha fatto la stessa osservazione il magistrato [Libero Mancuso, ndr]”.

Martini di Cigala si riferiva all’arresto del 1993, quando insieme ad altre persone finisce dietro le sbarre per una questione che vede al centro un giro di titoli di credito dello stato somalo. A indagare è la Procura di Bologna e lui all’epoca era amministratore della Al Mahdi Group, in cui azionista di maggioranza era Maslah Barre, figlio di Siad Barre. Per rispondere alla domanda, ci racconta il suo percorso professionale:

“Fare affari in Africa all’epoca era molto facile, soprattutto in Somalia, dove si parlava l’italiano. Bastava il passaparola per far aprire porte importanti. Capisco che possa risultare strano. Come mai uno entra in contatto con capi di stato, ministri, generali ecc.? Basti pensare che a 23 anni avevo assunto la presidenza della Federazione Nazionale commercio estero, un sindacato di categoria che aveva avuto il decreto di massima rappresentativa sindacale da Sandro Pertini. Poi sono diventato l’ispettore nazionale dell’intera confederazione, non più della Federazione nazionale commercio estero, ma di tutto il sindacato. Questo sindacato era stato organizzato, voluto, creato dal principe Giovanni Agliata di Monreale”.

Un giro di amicizie e conoscenze singolari, per un ragazzo appena ventenne. Ma tant’è. Martini di Cigala ci dice che, a un certo punto, comincia a inserire nelle varie federazioni di categoria delle persone di sua fiducia ed è qui la chiave dei futuri successi: una rete ben consolidata di rapporti a tutti i livelli. Quando gli diciamo che anche a noi comincia a venire il sospetto che in realtà – come più volte è stato detto – fosse una sorta di collaboratore “esterno” del Sismi, il servizio segreto militare fino al 2007, ride.

“All’epoca [del primo viaggio in Somalia, nel 1988, ndr] avevo un’associazione che si chiamava Federcomes, Federazione internazionale commercio estero. Ero il segretario generale. C’erano come membri personaggi di primo livello. La Federcomes nasce quando litigo con il presidente del sindacato, che mi impediva di fare le nomine che volevo io. Ho fatto una riunione a Roma e abbiamo fatto nascere la Federcomes, con una serie di personaggi interessanti. Ecco il motivo per cui quando arrivavo in un Paese avevo un percorso veloce: avevo alle spalle questa struttura che mi ero creata a mio piacimento”.

Al di là della sua storia personale, il motivo principale per cui ci siamo messi in contatto con lui è stato l’attentato in cui a luglio è morto Hashi Omar Hassan, ingiustamente condannato – poi assolto e risarcito – per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Mirko Martini di Cigala è entrato suo malgrado nella vicenda, tirato in ballo dalle rivelazioni – tutte prive di riscontro – di un pentito di ‘ndrangheta, Francesco Fonti. Rivelazioni che hanno portato la Commissione parlamentare - che nei primi anni Duemila, sotto la guida di Carlo Taormina, ha indagato sulla morte della giornalista Rai e del suo operatore – a sentirlo insieme a un altro personaggio negli anni indicato al centro di diverse trame: Giancarlo Marocchino.

Martini di Cigala, però, a Ilaria Alpi è legato anche per averla conosciuta: “È stata lei a cercarmi. Era il 1993 ed erano usciti gli articoli di giornale quando c’era stata la custodia cautelare nei miei confronti fatta dal dottor Mancuso di Bologna. Quando la custodia era finita, mi trovavo presso l’Hotel Nazionale, a Roma. Lei è venuta alla reception e ha chiesto di me, il portiere mi ha chiamato chiedendomi se poteva passarmela. In tutto ci siamo visti tre volte. Ilaria era innamorata della Somalia, ce l’aveva nel cuore. E la conosceva forse meglio di me. Tutte le volte in cui ci siamo visti, tre volte, il discorso era per l’80-90% concentrato sulla cooperazione italiana. Quando lei la prima volta mi parlò del traffico di rifiuti tossici le ho detto scusa Ilaria, facciamo un’analisi: Una nave parte dall’Italia stipata di rifiuti tossici, diretta verso la Somalia. Questa nave deve fare lo stretto di Suez, dove i controlli sono quelli che sono, però è sempre un rischio. Arriviamo all’Oceano Indiano. Se devi scaricare dei rifiuti, che fai? Approdi a un porto, organizzi un convoglio di camion mentre i somali stanno a guardare? Tutti vedono e tutti sentono, che senso ha? Non fai prima a scaricarli in mare? Se devo portare qualcosa che deve essere smaltito, ho un oceano a disposizione, lo butto a mare”.

Non possiamo trattenere i brividi, ma il discorso in effetti fila. Riguardo la morte di Hashi Omar Hassan, alla nostra domanda se secondo lui possa esserci un collegamento con la morte di Ilaria Alpi, Martini di Cigala si dice scettico: “Potrebbe essere una questione di soldi. Non so quanti milioni aveva ricevuto per l’ingiusta carcerazione... certo, la cosa strana è che se io devo avere dei soldi da qualcuno, non lo ammazzo. Se lo ammazzo i soldi non li avrò mai. Ad ogni modo, non saprei essere specifico su questo punto”.

Come accennato, il nostro interlocutore è finito anche nella scia di misteri senza fine scaturita dalla morte della giornalista: “Quando sono stato convocato in Commissione parlamentare, sono stato convocato perché avevo contribuito a fissare alcuni incontri a Carlo Taormina. Dopo la morte di Ilaria mi ero messo in contatto con i genitori, i quali mi avevano messo in contatto con Mariangela Gritta Grainer [esponente del Pci e membro della Commissione, particolarmente attiva a fianco dei genitori di Ilaria per scoprire i mandanti dell’omicidio, ndr]. Potevo avere delle persone che potevano avere informazioni e via dicendo. Ho sempre chiesto che in questi incontri che organizzavo fosse presente un magistrato e un funzionario di polizia a garanzia di tutti. Ad un certo punto, però, ho rallentato. Avevo la sensazione che si volesse puntare solo da una parte e non guardare il resto. Ho detto: “Non voglio mettere a rischio nessuno”. Poi mi chiama Taormina. Mi dice che alcuni parlamentari vogliono sapere chi è che sta organizzando questi incontri. Mi chiede se fossi disposto a fare un’audizione secretata. Ho detto ok, l’importante è che sia secretata. Vado in commissione parlamentare, entro in quest’aula a palazzo San Macuto e vedo dei giornalisti che erano membri della commissione”.

Da “collaboratore” sui generis alle indagini, Martini di Cigala nel 2004 finisce sotto la lente d’ingrandimento de L’Espresso. Il giornalista Riccardo Bocca, infatti, pubblica un reportage sul traffico di materiale radioattivo tra Italia e Somalia, attingendo a piene mani al memoriale di Francesco Fonti, il pentito cui abbiamo già accennato. In circa 15 pagine autografe, Fonti, tra le tante persone, tira in mezzo anche il nostro interlocutore, che avrebbe avuto il ruolo di intermediario e facilitatore per il trasporto di scorie radioattive dall’Italia alla Somalia. Interrogato sul punto, Martini di Cigala ha ricordi molto vividi: “Mi chiama Taormina [Carlo, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Alpi-Hrovatin, ndr] e mi chiede se sono disposto a fare un’audizione con il pentito. Dico di si e viene organizzato questo incontro”.

L’incontro si svolge in una caserma della Guardia di Finanza, alla presenza di tutta la commissione: “Entro in questa caserma e mi mettono in una stanzetta dove ci sono distributori di coca-cola e caffè. Nella stanza c’era una persona. Parte l’audizione, poi scopro che quella persona era Giancarlo Marocchino, che in Somalia non avevo mai incontrato”.

Tanto Martini quanto Marocchino vengono fatti sedere in mezzo agli altri membri della Commissione, poi viene fatto accomodare il pentito. Dopo aver ripetuto quanto scritto nel suo memoriale, gli viene chiesto di indicare se nella sala sono presenti due dei personaggi da lui tirati in ballo, appunto Martini e Marocchino. Il pentito di ‘ndrangheta non è in grado di riconoscerli e addirittura, in un confronto serrato sotto gli occhi e le orecchie della commissione, Marocchino smonta gran parte della sua ricostruzione di come si sia svolto il suo viaggio verso la Somalia. In poche parole, la testimonianza di Francesco Fonti perde di qualunque valore.

Secondo il nostro interlocutore, che ci racconta del rapporto che da quel momento in poi si stabilisce tra lui e l’imprenditore trapiantato ancora oggi in Somalia, la morte di Ilaria Alpi non sarebbe legata a un’inchiesta che la giornalista stava svolgendo sul traffico di rifiuti, ma ad un’altra inchiesta legata alla cooperazione italiana, e ci dice anche che se Giancarlo Marocchino, giunto tra i primi sul luogo dell’attentato e ripreso da due operatori della tv svizzera arrivati poco dopo, non avesse subito parlato di un agguato, “sarebbe finita come la cosa di monsignor Colombo, messa sotto traccia”.

Martini di Cigala si riferisce a Pietro Salvatore Colombo, vescovo di Mogadiscio, ucciso nel 1989 mentre rientrava nella cattedrale di Mogadiscio con un colpo di pistola al cuore. Un omicidio irrisolto: “È stato dimenticato. Guarda caso anche lui dove aveva messo il naso? Dove finivano i soldi della cooperazione italiana. Anche lui cercava di capire dove finivano i soldi dei progetti decisi a Roma. Ai somali venivano dati quattro soldi. Il vescovo teneva rapporti con i clan, sottoclan, e anche lui cercava di muoversi per evitare di far scoppiare la rivoluzione. Che non è stata voluta dai somali. In Somalia c’erano interessi americani, britannici. Interessi tipo uranio. I russi qui estraevano uranio”.

Sull’estrazione di uranio in Somalia, in particolare ad opera dei russi, non abbiamo riscontri, ne potremo mai averli da chi ci ha dato questa informazione. Allo stesso modo, difficilmente potremo decifrare un’altra circostanza raccontataci da Mirko Martini di Cigala, forse quella più interessante di tutta la nostra intervista, la stessa per la quale avremmo dovuto vederci di persona. Su questo punto, infatti, avevamo intenzione di approfondire il più possibile. Si parla di Vincenzo Li Causi, di Mario Ferraro e di Giovanni Falcone.

Mirko Martini di Cigala ha conosciuto bene il maresciallo Li Causi, lo 007 che per un certo periodo ha guidato il Centro Skorpione di Trapani, la base segreta riferibile alla struttura semi-clandestina Gladio. Quando nel 1990 il Centro venne chiuso, Li Causi cominciò ad essere inviato in Somalia. Ed è lì, precisamente a Balad, che muore il 12 novembre 1993. Ufficialmente in uno scontro a fuoco con dei ribelli somali, in realtà in circostanze mai del tutto chiarite. L’unica cosa certa è quel colpo alla nuca. Chiunque sia stato o aveva un’ottima mira o ha sparato da molto vicino. Sulle circostanze della morte, Martini ha le idee chiare: “Ne ho parlato con Rajola Pescarini [Generale Luca Rajola Pescarini, responsabile della II Divisione del Sismi in Somalia all’epoca dei fatti, ndr], mi ha sempre detto che è stato un agguato organizzato dai somali. È quello che ha sempre sostenuto. Conoscendolo bene, non ho dubbi di smentirlo. Rajola con me, per quel poco che ci siamo frequentati, è sempre stata persona corretta e sincera”.

Tralasciando le vere responsabilità nella morte di Li Causi, la cosa interessante è come i due si siano conosciuti: “All’epoca si occupava di mafia e di ‘ndrangheta in varie vesti. Nel senso che non utilizzava il suo vero nome, né la sua vera funzione. Quando il generale Luca Rajola Pescarini l’ha voluto in Somalia, non è stato perché era venuta fuori la storia di Gladio. È perché si era bruciato, qualcuno lo aveva riconosciuto come un agente dei servizi”.

Che l’attività del Centro Skorpione potesse in qualche modo avere a che fare con un’attività di monitoraggio delle attività mafiose è ipotesi più volte circolata, ma che Vincenzo Li Causi, morto proprio il giorno prima di dover tornare in Italia per essere interrogato dal magistrato veneziano Felice Casson che stava indagando su Gladio, fosse un infiltrato e si fosse dovuto letteralmente “rifugiare” in Somalia perché “bruciato”, questa è nuova.

“Ho consegnato a Li Causi alcuni documenti”, ci dice Martini, “documenti del Ministero dei Lavori pubblici in cui erano indicati gli appalti che venivano assegnati e quelli che andavano a trattativa privata. Questi ultimi erano scritti a matita: Pci e il nome, Psi e il nome, DC e il nome... in quota partito. Due o tre mesi fa [l’intervista risale al luglio 2022, ndr] sono state desecretate delle audizioni di [Giovanni, ndr] Falcone alla Direzione nazionale antimafia. In una di queste c’è proprio il fatto che Falcone dice: “Esiste una centrale nazionale per l’assegnazione degli appalti pubblici”. A Li Causi ho dato il tabulato in cui erano elencati i lavori che andavano a trattativa privata. Probabilmente quel tabulato lì l’ha avuto Falcone”.

Il fatto che, come ci è stato detto, dopo questa intervista Martini di Cigala stesse preparando dei documenti non può non farci pensare che si tratti di materiale a supporto di queste affermazioni. Su questo specifico punto, infatti, avevamo a lungo insistito per avere altre informazioni, ma la promessa era stata che al momento in cui ci saremmo incontrati di persona, avremmo avuto modo di tastare la veridicità delle sue parole. Ad ogni modo, l’intervista era proseguita. In particolare abbiamo chiesto al nostro interlocutore perché abbia consegnato questi documenti e perché proprio a Li Causi: “Ero venuto a conoscenza di queste cose perché all’epoca collaboravo con una grossa azienda che lavorava all’estero. E poi sapevo che [Li Causi, ndr] stava svolgendo un’indagine in Sicilia proprio su queste cose qua. Me l’aveva detto Ferraro”.

Altro tassello, altro 007 morto in circostanze misteriose. Il colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato impiccato a un termosifone con i piedi che toccavano terra il 16 luglio 1995:

“È stato lui a presentarmi Li Causi. Ferraro l’avevo conosciuto molto prima, perché mi sono imbattuto su una questione che riguardava dei fondi stanziati per la ricostruzione della Basilicata del post terremoto. C’erano alcuni personaggi che gravitavano attorno ad una commercialista di Napoli, personaggi che avevano dei tesserini in tasca. All’epoca avevo un cliente, un amico, al quale avevo seguito una pratica. Lui produceva carta e io avevo fatto fare uno studio per farlo uscire con un prodotto di alta gamma. Si trattava di carta asciuga-tutto, fazzoletti, ecc. Presentiamo questo progetto nella zona di Pescopagano [provincia di Potenza, ndr]. Viene approvato e deliberato per 18 miliardi e 480 milioni, se non erro. Dopo il mio cliente doveva presentare la fideiussione assicurativa per avere questi fondi. Ma le assicurazioni non rilasciavano niente”.

A questo punto si innesca un meccanismo intricato che puzza di estorsione: il cliente di Martini di Cigala viene accusato di essere un piromane e di aver bruciato uno stabilimento industriale, le pratiche si arenano e, dulcis in fundo, viene avvicinato da alcuni personaggi a cui dovrebbe cedere il progetto: “Lui non vuole cedere, partono alcune minacce. Io subentro nella sua attività e un amico a Roma mi dice: ti presento un agente dei servizi, è una persona pulita, e mi ha presentato Ferraro. Nasce questo incontro, parliamo di questa situazione. Il rapporto è quello. Poi io Ferraro l’ho rincontrato altre volte. Quando è morto ho pensato che l’avessero fatto fuori. Ferraro spaziava in troppe questioni, soprattutto le indagini interne del Sismi”.

Verso la fine dell’intervista, abbiamo cercato di tirare le fila del discorso e di capire per quale motivo intorno al nostro interlocutore si siano sempre mossi personaggi ambigui, nella maggior parte dei casi uomini legati ai servizi segreti, tra i quali quelli che – loro malgrado – sono rimasti noti per le loro morti decisamente misteriose. Martini al telefono sembra rifletterci su: “Tu vai in un paese [riferendosi alla Somalia, ndr] dove sai che sono stati spesi migliaia di miliardi. Ti guardi intorno e ti chiedi dove sono finiti. Sono andato a curiosare. Quando ho messo il naso dentro la Sace... mamma mia. Macchinari usati fatti passare per nuovi dando una mano di vernice. E poi so che in Somalia c’è il petrolio. La domanda più stupida è: perché un Paese che ha 8 milioni di abitanti e lo stipendio mensile corrisponde a 10-15 dollari, deve vivere così avendo l’oro sotto i piedi? Allora ho coinvolto un amico che era il segretario alla presidenza dell’Indonesia per il discorso petrolio. Stai lontano dal petrolio in vita tua…”.

Sarà, ma una risposta precisa non ci sembra di averla ricevuta. Glielo diciamo, ci risponde che “chi aveva organizzato l’inghippo era Aldo Anghessa”. Quale inghippo, non è dato saperlo, la telefonata termina poco dopo. Unica cosa sicura è che anche in questo caso si parla di uno 007: Aldo Anghessa, ex Sisde, morto da latitante in Senegal nel 2020.

Alla fine dell’ultima telefonata, le domande sono molte di più delle risposte. L’occasione di avere da lui qualche elemento in più è venuta meno il 10 novembre. Chissà se tra quei documenti che ci hanno detto essere scomparsi da casa sua insieme a un telefono cellulare e a un computer ci fosse qualcosa a supporto di quanto raccontatoci. Chissà che magari la circostanza riportataci [quella della sparizione, ndr] non sia un’inspiegabile millanteria per alimentare mistero intorno a una vicenda dove il mistero non necessariamente dev’esserci.

In entrambi i casi, sarà interessante approfondire questa vicenda, almeno fin quando il quadro non risulterà – in primis a noi – più chiaro.

Commenti