Nazionalismo e ricatti economici Russo ha troppi santi in Paradiso

Satira del costume e vaudeville nel celebre lavoro del regista napoletano

Miriam d’Ambrosio

Pratica la contaminazione dei generi e degli stili dall'inizio della sua carriera. È la forma del suo talento, il modo suo di esprimere pensieri sul mondo. Tato Russo non può prescindere dal linguaggio di Shakespeare e della tradizione napoletana con Viviani, Petito, Eduardo. Non è impermeabile a Beckett e passa da Plauto a Pulcinella.
I suoi spettacoli continuano a vivere, ripresi costantemente, come fa con il suo Troppi santi in Paradiso, commedia del 1981 che da stasera arriva al Teatro Nuovo. Lui l'ha chiamata "bizzarria comico-satirica" e ha battezzato il protagonista con il nome, inequivocabile, di Scalognoff.
«Scalognoff è frustrato, non riesce a ottenere una promozione sul lavoro e, a un certo punto, decide di usare l'arma del ricatto e svelare i segreti di alcuni personaggi di potere - racconta Russo che è interprete, autore e regista della "bizzarria" - metto in scena la storia di questo disagio che tutti noi conosciamo bene. Mi interessava criticare ogni forma di Stato che alimenta i cittadini di tessere invece di valorizzare i talenti. È triste dirlo, ma non abbiamo raggiunto ancora una forma di democrazia compiuta e così, abbiamo inventato i nostri santi in Paradiso per pregarli al momento opportuno».
La commedia di Russo ha i tempi del vaudeville, fa satira di costume e a tratti somiglia al teatro dell'assurdo. Un mélange tipico dell'artista napoletano, «uno spettacolo surreale e reale, coloratissimo, vissuto in scena da attori bravi che ho scelto per recuperare tutta la forza dell'arte dell'attore, capace di divertire ed emozionare lo spettatore - sottolinea - accanto a me c'è Justine Mattera che rappresenta una sorta di angelo sterminatore capace di scatenare una serie di conflitti. Un angelo vestito da donna, una bionda americana degli anni Trenta».
Gli anni Trenta sono il tempo scelto, «ma potrebbe essere il Duemila - spiega Tato - non c'è tempo o luogo che regga di fronte a certi meccanismi umani che si ripetono. Lo stato si chiama Malitalistan e la capitale Romanistan. Volevo parlare dei problemi che esistono anche oggi, senza vestire i panni di questo nostro tempo». A Scalognoff, per emergere, non resta che il ricatto: tutto si svolge all'interno di un ministero dove si muovono grotteschi personaggi.
Al centro dell'ironia amara di Russo c'è l'acceso nazionalismo dello stato di Malitalistan, lo sguardo sospetto verso il "prodotto straniero". «Viene sbeffeggiata l'idea di nazione - dice l'attore - e poi, si sa, qualunque nazione è sempre "meticciata", frutto di incontri e scambi».
Tato Russo ha prodotto tanto nel suo percorso e dice di averne combinate "di tutti i colori" con le sue "fusioni" e incursioni dalla classicità alla storia contemporanea. «Non avrei potuto fare nessun altro mestiere - aggiunge - ho iniziato molto presto, sono stato un po' come la Monaca di Monza.

Mi mettevano in scena già a tre anni, mi utilizzavano per le recite e le letture in chiesa durante la messa. Quando ho cominciato a scrivere per il teatro sono nate le contaminazioni tra William Shakespeare e Eduardo. E infatti il mio è sempre uno Shakespeare mediterraneo».

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