Controcultura

Nel caos "tossico" dove nasce... Burroughs

Torna "Junky", il suo primo romanzo, in una versione completamente restaurata

Nel caos "tossico" dove nasce... Burroughs

William Burroughs nasce a Saint Louis, nel 1914, in una ricca famiglia di industriali a cui si deve l'invenzione del registratore di cassa. Laurea in letteratura ad Harvard, PhD in antropologia, studi di medicina a Vienna, assiste all'ascesa del nazismo, sposa un'amica ebrea solo per metterla in salvo, frequenta amici discutibili, partecipa a un omicidio in compagnia di Jack Kerouac, Bill e Jack occultano il cadavere dell'amico David Kammerer, per aiutare un altro amico, Lucien Carr, the original Beat, il primo e anche l'ultimo hipster, se la cavano perché la vittima è un omosessuale, quindi un «non uomo» per gli standard dell'epoca. Anche Bill è omosessuale. Prova una marea di droghe, finisce nei bassifondi, si offre come cavia per la sperimentazione di qualunque acido, manda letteralmente affanculo Timothy Leary perché impasticca chiunque, anche chi è impreparato ai viaggi, spara in testa alla moglie giocando a Guglielmo Tell, fugge in Messico, comunque continua a drogarsi, Keith Richards al confronto è una educanda. Scrive uno, due, tre, cinque, dieci libri che dovrebbero figurare nella libreria di chiunque, a Parigi si inventa (con un piccolo aiuto dell'amico Brion Gysin) il cut up, ovvero prendi una pagina scritta da te o anche da altri, ritagli parole e frasi, le metti in un sacchetto, lo agiti e rovesci, rimonti a tuo piacimento, tutti lo imitano senza capirci niente, invece lui scrive racconti sconvolgenti con quella o altre tecniche, uno per tutti Exterminator, le più terrificanti otto pagine sull'Olocausto, mai nominato espressamente, roba da psicopatici, poi scrive romanzi in cui perdersi per trovare le proprie tare psicologiche e psichiatriche, non facciamo l'elenco, basta Pasto nudo, romanzi che ispirano i Duran Duran (Wild Boys), romanzi quasi realistici (Checca), inni ai gatti. Rilascia interviste memorabili in cui finisce regolarmente per intervistare l'intervistatore, manda lettere sorprendenti in cui è facile misurare la distanza dagli altri beat, un noto settimanale italiano confeziona un falso inedito di Burroughs con la tecnica del cut up, nessuno se ne accorge, neanche Burroughs, incide un disco con Kurt Cobain, diventa un quasi adepto di Scientology, si appassiona alle armi, ah anche l'omicidio della moglie alla fine viene perdonato, quando però William vuole giocare a Guglielmo Tell improvvisamente tutti hanno qualcosa da fare e tornano a casa, rockstar penose cercano di legittimarsi frequentandolo, lui prende volentieri tutti quanti in giro, le rockstar manco se ne accorgono o fingono di non accorgersene, scrive una sceneggiatura, la pubblica, fa schifo ma ha un bel titolo, Blade Runner, chiedere a Ridley Scott se gli è piaciuto, insomma Bill ha visto cose che noi umani non abbiamo visto neppure quando stavamo su Orione a guardare i bastimenti in fiamme nello spazio. Alla fine, comprensibilmente, muore anche lui, poveretto, nel 1997. Non ha frequentato scuole di scrittura, non ha vinto il Premio Strega, non ha fatto endorsement politici, non apparteneva a gruppi, neanche a quello Beat, non era niente a parte se stesso, cosa che poteva anche essere faticosa per lui e sgradevolissima per gli altri. Risultato, lascia un'opera di formidabile ingegno, in cui non racconta nulla che si possa capire dall'inizio alla fine ma che spiega tutto quello che ci circonda: dalle biotecnologie alle guerre in Medio oriente passando per la globalizzazione, soprattutto spiega perché normale è solo chi uccide la sua anormalità che poi è sempre la sua più grande ricchezza. Chi si macchia di questo peccato, ed entra o resta nella valle dei tiepidi, senza mai uscirne, non vale nulla, inutile girarci intorno. Ecco come William Burroughs, nel 1973, in cinque righe, rendeva inutili, datati e ridicoli i successivi cinquant'anni di discussione dei critici letterari: «Il romanzo tradizionale è spacciato, marginale. In futuro la gente non leggerà o leggerà solo forme di scrittura estremamente brevi. Lo scrittore dovrà sviluppare tecniche sempre più precise in grado di competere con la televisione e la fotografia». Ecco, adesso studiate filologia, metrica e storia della lingua. Il resto è fuffa buona per discussioni fuffose. Ah, con quest'altra frase invece liquida la sociologia politica dal dopoguerra a oggi: «Noi abbiamo un nuovo modo di governare adesso. Non il governo di un solo uomo, o il governo degli aristocratici o dei plutocrati, ma di piccoli gruppi innalzati a posizioni di potere assoluto da pressioni a casaccio, e soggetti a fattori politici ed economici che lasciano poco spazio alla decisione. Sono i rappresentanti di forze astratte che hanno raggiunto il potere attraverso la resa del proprio io. Il dittatore dalla volontà di ferro è una cosa del passato. Non ci saranno più Stalin, non più Hitler. I governanti di questo che è il più insicuro dei mondi possibili sono governanti per puro caso, inetti, timorosi piloti ai comandi di una vasta macchina che non possono capire, e chiamano degli esperti che gli dicano quali bottoni premere». Olè.

Adesso torna in Italia, ma è come se arrivasse per la prima volta, il romanzo d'esordio di Burroughs, Junky (ovvero tossico, traduzione di Andrew Tanzi, Adelphi, pagg. 230, euro 19). È come la prima volta, perché Oliver Harris, il curatore, è tra i pochissimi ad aver capito qualcosa del caos regnante nella filologia di Burroughs. Dunque il testo è «restaurato» in modo che assomigli il più possibile all'ultima volontà di Burroughs. In appendice, prefazioni d'autore, di Allen Ginsberg, parti tagliate e tutto quello che ci deve essere in una edizione ben fatta.

Il romanzo racconta le peripezie di un tossico in cui sarebbe sbagliato vedere un referto autobiografico, anche se certamente il romanzo pesca a piene mani dalle esperienze personali di Burroughs. È un pulp, uscito direttamente nei tascabili Ace, con un risultato modesto per l'epoca e per il tipo di libro: 131mila copie circa. La storia è sufficientemente lineare da non richiedere alcuno sforzo per essere seguita. Junky è divertente come Bukowski ma Burroughs era uno scrittore troppo colto per fare il piacione (niente di male, per carità) come Buk. Dunque è gelido, e l'ironia, che pure non manca, è sottilissima, un velo su tutti gli avvenimenti.

In un paio di occasioni, la fantasia spicca il volo e Burroughs ci lascia vedere il profilo dello scrittore fantasmagorico che presto diventerà. Le descrizioni dei bar frequentati dai tossici sono un piccolo manuale del Pasto nudo a venire, tra drogati assimilati a bruchi e insetti vari.

Se avete la fortuna di non conoscere Burroughs, beati voi che siete attesi dallo choc della prima volta.

Che potrebbe proprio avvenire con Junky.

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