Riapre trionfalmente Palazzo Franchetti, in campo Santo Stefano nel sestiere di San Marco, di fronte all'Accademia di Venezia. Capolavoro del neogotico, su fondamenta tardo-gotiche, vuole rappresentare l'Ottocento storicista che riabilita non il Rinascimento ma il Medioevo.
Nel 1878 fu acquistato dal barone Raimondo Franchetti, padre di Alberto, compositore, e di Giorgio (cui si deve il recupero museale della Ca' d'Oro). I Franchetti avviarono radicali restauri, condotti da Camillo Boito. Oggi l'Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, presieduto da Gherardo Ortalli, lo ha affidato alle sensibili cure di Franco, Roberta e Alessia Calarota, collezionisti e cultori di arte contemporanea, la cui Fondazione si innesta sugli spazi ampi ed integri del palazzo, dopo l'importante intervento degli anni Venti, quando la vedova di Raimondo Franchetti, Sarah Luisa De Rothschild, cedette il palazzo all'Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie, che intervenne con nuovi lavori. A questa fase si deve la sistemazione del secondo piano nobile, con la creazione di un immenso mobile-boiserie per il Casellario centrale, una magistrale libreria con la scaffalatura neogotica di sorprendente effetto. Al piano nobile la fondazione Calarota ha aperto, nel tempo della Biennale, la sua attività veneziana, concorrendo in modo alto e originale con le proposte della Fondazione Cini (Burri), di Ca' Pesaro (Gorky), della fondazione Prada (Kounellis).
La scelta dell'artista è sofisticata, e perfetta per Venezia, instaurando una dialettica con l'altra mostra nelle Gallerie dell'Accademia, su Georg Baselitz. Calarota ha voluto Jean Dubuffet, nel quale si sintetizzano tutte le esperienze più radicali dell'avanguardia del Novecento. Dubuffet, nella cura precisa di Sophie Weber e Frédéric Jaeger, appare primario e materico come Burri, e luminoso come un mosaicista di San Marco. Il suo dialogo con Venezia era già stato documentato nel 1964 a Palazzo Grassi e nel 1984 alla Biennale di Venezia. Oggi l'artista ritorna, con una scelta precisa, per gli spazi ampi del portego e delle luminose sale di Palazzo Franchetti, di alcuni dei cicli più significativi: dalla serie Célébration du sol, con cui approfondisce le ricerche degli anni Cinquanta sulle variabili vibrazioni della materia, e a cui appartengono le Matérologies e le Texturologies, al grande, eversivo L'Hourloupe, vero «nucleo centrale» della ricerca di Dubuffet, sviluppato tra il 1962 al 1974, e già presente nel suo embrione creativo (una nuova e diversa «origine du monde») alla prima mostra di Palazzo Grassi.
Dubuffet (nato nel 1901 a Le Havre e morto nel 1985 a Parigi) è, più di Picasso, l'emblema dell'arte contemporanea. La sua «Art brut», dopo Duchamp e il Dadaismo, nella ricerca legata al mondo primitivo, brutale, informale (ma non figurativo) e il recupero di forme arcaiche, dei graffiti preistorici, indicava una profondissima umanità, la coscienza dell'uomo che lo portava, come nelle espressioni dei bambini, a cercare l'origine delle forme nella mente dei folli, estranei all'ordine e alle regole sociali. L'arte dei pazzi o, semplicemente, l'arte di chi soffre disagi e disturbi mentali, è istinto libero. Ed è quello che, appunto, Dubuffet chiama «Art brut». Da qui discende anche la sua ricerca artistica. L'artista esteticamente alienato produce una rappresentazione del terrore che avverte intorno a lui. Dubuffet, come ogni altro artista consapevole, crea lucidamente per restituire uno specchio simbolico della realtà. Osserva con intelligenza Maurizio Cecchetti: «Nessun folle potrebbe eseguire un capolavoro come Terra arancione con tre uomini del 1953, dove ogni segno, incisione, graffio, rigurgito materico risponde a un intento simbolico (qui, lo spirito della materia, e la materia dello spirito emergono con misurata grandezza)».
Dopo aver lavorato per circa due decenni sull'informe e i suoi recessi archetipali, come li definì Gaëtan Picon nel 1973 (vale a dire, formali e figurativi in senso lato, vedi per esempio le due figure umanoidi di Deambulazione del 1961), nell'opera di Dubuffet comincia ad affacciarsi un elemento costruttivo di sagome informali che si incastrano l'una nell'altra componendo nuove figure, giganti della forma (Sitimini, 1962), che poco alla volta producono esseri pantagruelici, ammassi di forme che ricordano le Compressioni di César. Disegno, scultura, architettura si compongono di modules découpés per circa un decennio nel ciclo dell'Hourloupe, neologismo che per Dubuffet definisce un «teatro totale». Forme spazializzate che costruiscono sfondi, scenografie, sculture, architetture, come il giocoso Cosmorama del 1970, e convergono a realizzare Coucou Bazar nel 1972. Alla fine di quel decennio che ne ha fatto un mito internazionale, Dubuffet si spinge oltre e nei primi anni Ottanta, approda a una ulteriore sottrazione di elementi figurativi. Ma è in quel momento che sembra chiedersi se non sia andato troppo oltre e in Quadro nero del 1984 pare affacciarsi dentro di lui la domanda sulla fine, la fine di tutto, anche dell'arte come terapia umana che corteggia più che allontanare la morte».
La sua intuizione iniziale era molto remota, originaria. Dubuffet, che da giovane produceva vini, si era ben presto occupato degli alienati, della loro attività creativa. Il suo viatico era stato il testo fondamentale, del 1922, L'attività plastica dei malati di mente, dello psichiatra e storico dell'arte Hans Prinzhorn, con ampia documentazione fotografica. Non è immediato che la creazione dei malati di mente sia arte, ma certamente genera un effetto imitativo e competitivo negli artisti contemporanei. L'arte ha una essenziale natura simbolica, mentre la produzione dei folli è una forma di espressione determinata dalla loro malattia, con un di più di spontaneità e necessità. Come un diario rispetto a un romanzo. Il nesso tra queste istintive produzioni creative e l'arte liberatoria del Novecento è innescato dall'accostamento delle opere raccolte da Prinzhorn a quelle degli artisti contemporanei, nella grande mostra voluta da Hitler nel 1937 «Entartete Kunst» (Arte degenerata), a Monaco di Baviera. Il primo catalogo di «Art brut» fu concepito da Prinzhorn e teoreticamente promosso da Dubuffet, che ne donò la collezione al museo di Losanna. Questa straordinaria coincidenza di vita ed arte, di produzione necessaria (dei folli) e di Kunstwollen (degli artisti) è l'intuizione più potente e più innovativa di Dubuffet.
E stabilisce il tema centrale dell'arte contemporanea (nei suoi orrori reali e apparenti), indicando in modo coerente l'allargamento della nostra esperienza dell'arte dal «bello», espressione dell'idea e dello spirito, all'«antigrazioso» dell'asimmetria, dell'informe e del deforme, alla perdita di definizione della figura (anche nell'arte cosiddetta figurativa, vedi Francis Bacon), cui oggi potremmo aggiungere le espressioni Pop e kitsch, lingua estetica del nostro tempo.Dubuffet ha illuminato come nessuno la concezione che abbiamo, da oltre un secolo, dell'arte (con la bellezza sempre più sfigurata). Oggi tutto questo, a Venezia, appare definitivamente reale.
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