Ma dicevamo. Lamore esiste o no? A guardarla si direbbe di sì. Rosa Teruzzi ha negli occhi la tranquilla, costruttiva serenità di chi è lontano tanto dal cinismo quanto dalla frenesia del desiderio. A leggerla si direbbe ancora di sì. E si avrebbe unidea di cosa per lei sia questo sentimento: una sfida innanzitutto con se stessi.
Nel suo romanzo Nulla per caso (Sperling&Kupfer, pagg. 208, euro 16.50; presentazione dell'autrice e di Cristina Parodi domani alla Libreria Mondadori Duomo, ore 18.30), Rosa Teruzzi racconta la formazione di una giovane donna, Irene, divisa tra un padre assente e una madre perfetta, tra un'adolescenziale infatuazione per il suo capo (che la chiama «tesorino» ma non perde occasione per sfruttarla) e un lavoro - cronista di nera - che la obbliga a orari e luoghi impossibili. Divisa, inoltre, tra una Milano popolare, con sconfinamenti in quella borghese, e un «dono» eccentrico: poter sentire, attraverso un breve contatto, il dolore degli altri. Unempatia insolita, tormentosa, che laiuta nel lavoro a scoprire i lati nascosti di vittime e colpevoli, pur rimanendo miope nella vita privata. Abbiamo incontrato l'autrice.
Iniziò tutto a una «scrivania abusiva» de La notte, poi sempre avanti fino a Verissimo, che hai anche condotto. Ora sei caporedattrice a Videonews. Cosa pensi dell'ambiente giornalistico?
«Ho scritto il primo articolo a 16 anni e non mi sono ancora pentita di aver scelto questo mestiere. Lo vivo con la passione e la disciplina, spesso esagerate, che applico a tutti gli ambiti della mia vita, e senza ombra di cinismo. A lungo mi sono occupata di nera, ma - come Irene - concentrandomi più sulle persone che sui meccanismi dell'indagine».
Una passione che viene da lontano.
«È stato un libro, quando avevo sei anni, a mettermi in testa l'idea del giornalismo: si intitolava Violetta la timida, di Giana Anguissola. Racconta di una bambina impacciata che diventa sicura di sé collaborando a un giornalino. Più di recente, una sera in metropolitana ho letto un'intervista a Camilla Baresani: Diventare scrittori a 40 anni si può. Avevo già un cassetto pieno di racconti. Due giorni dopo mi sono iscritta a una scuola di scrittura creativa ed eccomi qua».
Cosa pensi dell'ipotesi dell«ultima copia del New York Times»?
«Non riesco a immaginare la colazione al bar, di domenica mattina, senza almeno tre quotidiani da sfogliare. O un tragitto in metro dove non si sbirci il giornale del vicino. La tecnologia cambia le abitudini, ma non rinunceremo presto al piacere della lettura».
Nel libro Milano ha un sapore popolare: case di ringhiera affacciate sul Naviglio; afa estiva soffocante; nostalgia di mare. Poca poesia. La vivi così?
«È la stessa città che mi ha dato la possibilità di crescere. Caotica e organizzata, pragmatica e creativa, generosa e chiusa: ha molte facce. Ognuno sceglie quella che più gli somiglia: la modaiola non mi appassiona né come donna né come scrittrice. All'happy hour di solito sono in ufficio. Forse non è un caso».
La tua scrittura è lontana dalla chick lit che oggi, sebbene in declino, continua a essere uno standard editoriale piuttosto utilizzato. Nulla per caso è quasi serioso, scabro...
«È il mio passo. Cerco l'essenziale nella frase, il resto lo taglio. Per me scrivere è veicolo per condividere valori, e spazio di libertà. Volevo raccontare come può cambiare la vita di una persona quando si assume finalmente la responsabilità delle proprie scelte, abbandonando il vittimismo, e come questo può dare forza e felicità. Volevo parlare di amicizia, del mio mestiere, di quanto sia importante recuperare il rapporto coi genitori per diventare una persona completa».
E imparare ad amare?
«Sì. Irene ha una bassa autostima e si infatua di Principi azzurri di cui non si sente all'altezza e che non la ricambiano.
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