Politica

Nessuno vuole Tonino a tavola, ecco perché

Guardate che non c’è mica tanto da ridere: Di Pietro che dice «Alla Camera nessuno vuol pranzare con me» è una nota drammatica, non comica. Certo, è il suo modo di ribaltare ogni realtà a suo favore, e difatti la frase completa che ha pronunciato all’apertura della campagna elettorale è stata questa: «Alle Europee avremo successo, si vede dalla rabbia che abbiamo contro. A pranzo in Parlamento non trovo nessuno che si sieda a tavola con me». Ma voi non sapete che dramma c’è dietro questa frase: e non solo per un particolare di cui sono a conoscenza i cronisti parlamentari, e cioè che neanche i suoi compagni di Partito spesso vogliono pranzare con lui. Il problema è più antico e va oltre la storica incapacità di amicizia dell’ex contadino «imparato» a diffidare di tutto e di tutti, e va addirittura oltre il fatto notorio e politico che la lealtà, Di Pietro, non sappia neppure che cosa sia. Ma non è una questione di conoscere la biografia del personaggio, non è necessario conoscere il solito elenco di quelli che presto o tardi l’hanno abbandonato: da Pietro Mennea all’ex fidatissimo Elio Veltri, dal deputato Valerio Carrara ai vari Rino Piscitello, Federico Orlando, Milly Moratti, Sergio De Gregorio, persino Paolo Flores d’Arcais: «Gente che ha capito il personaggio e ha preso le distanze» ebbe a commentare Veltri. E non abbiamo neppure menzionato Walter Veltroni e perché no, Massimo D’Alema, colpevole della malsana idea di candidarlo nel 1997 al Mugello. Con uno così al limite ci potresti pranzare lo stesso: anzi, certe simpatiche carogne sono dei commensali molto meno noiosi di certe anime belle e narcotiche. Il problema è che a 59 anni suonati, i suoi, una certa sua aura, una certa sua brezza inferiore, ormai ti soffia in faccia direttamente. La si sente. È l’aura fatalmente negativa di chi ha fondato una carriera sulla galera altrui e stringi stringi la alimenta con la promessa di dispensarne ancora. La sua storia è quella che è, l’avventura di una spugna che assorbe e non restituisce, quella del cane che morde la mano che l’ha nutrito, mors tua e valori suoi. Le psicoanalisi da due soldi valgono giusto due soldi, troppi per buttarli in retrospettive inutili. Di Pietro viene da una famiglia dove la capacità di autocontrollo della madre come pure del padre, che interiorizzavano ogni dolore se non altro per necessità, potrebbero sembrare essere buoni indizi del suo carattere decisamente anaffettivo: la madre, in particolare, di fronte alle durezze della vita sapeva essere glaciale ed è stato proprio suo figlio, in una biografia, ad attribuirle quel «prega i morti, frega i vivi» che è un motto da lui ereditato solo nella parte meno religiosa, pare: ma queste sono sciocchezze. Ciascuno è responsabile di sé, punto: dunque di una condotta dove non esista gratitudine, lealtà, coerenza, amicizia che non sia complicità di contingenza. Comportamenti, questi, utili in politica, ma squallidi nel privato. Forse un pizzico sgradevoli anche solo per un pranzo alla Camera. La storia di Di Pietro, umanamente, si sente, non c’è bisogno di conoscerla tutta. Definitiva pareva la vicenda della sua amicizia con Pasqualino Cianci, già raccontata su queste pagine poco tempo fa. Di Pietro, in vita sua, ebbe un solo amico del cuore con cui divise la giovinezza e anche i fasti di Mani pulite: e quando l’amico fu accusato d’aver ucciso la moglie, nel 2002, Di Pietro gli si presentò come suo avvocato e lo valorizzò pubblicamente come suo amico d’infanzia. Poi l’amico venne arrestato e Di Pietro passò ad accusarlo con gli stessi materiali raccolti per difenderlo, valorizzando come amica d’infanzia la moglie trucidata. Pasqualino Cianci è stato condannato a 21 anni in primo grado, e Di Pietro, si ricorderà, è stato sospeso per tre mesi dall’Ordine degli avvocati. Se non basta questa storia, vediamone un’altra. Più che una storia, un’immagine: è una cena natalizia che il 19 dicembre 1991 si tenne a Milano a casa di Antonio D’Adamo, altro ex grande amico di Antonio Di Pietro. C’è l'ex cassiere socialista Sergio Radaelli che beve champagne; c’è il sostituto procuratore Antonio Di Pietro, quella sera più estroverso del solito, con in mano un inutile librone regalatogli dall’architetto socialista Claudio Dini; c’è il sindaco di Milano Paolo Pillitteri che è in ritardo, ma quando arriva ecco Di Pietro alzarsi per primo e accoglierlo ancora col tovagliolo in mano. Più tardi Di Pietro è al telefono con l’ex questore Umberto Improta, suo amico e mentore. Più tardi ancora, infine, c’è Di Pietro che alza il calice per primo e inneggia «al migliore dei sindaci possibili». Ora: chiedete a Radaelli se immaginava che Di Pietro entro pochi mesi l’avrebbe messo in galera. Chiedete a Claudio Dini se immaginava che Di Pietro entro pochi mesi l’avrebbe messo in galera. Chiedete a Pillitteri se immaginava che pochi mesi dopo Di Pietro avrebbe chiesto anche il suo arresto.

E se qualcuno obiettasse che Di Pietro fece soltanto il proprio dovere, senza distinguere tra amici o meno, noi non obietteremo nulla: però, ecco, questo qualcuno a pranzo con Di Pietro ci vada lui.

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