dal nostro inviato a Mendrisio
Josep Acebillo è sempre in movimento. Tre giorni a Tel Aviv, due a Venezia, il weekend a Londra, poi quattro a Mendrisio, dove dirige la Facoltà di Architettura dellUniversità della Svizzera Italiana. Non cè urbanista nel mondo che non sia ansioso di consultarlo. Non è difficile capire perché. Acebillo è larchitetto catalano che ha riprogettato Barcellona, trasformandola in una delle città più belle e funzionali dEuropa. Una città che ora riesce a integrare gli stranieri anche grazie a una lungimirante politica urbanistica, come spiega in questa intervista concessa al Giornale nel suo ufficio di Mendrisio.
Architetto Acebillo, come fa un architetto a contribuire allinserimento degli immigrati?
«Barcellona è da sempre una città di immigrazione, nel Novecento solo di spagnoli, ora solo di stranieri. Ma le analogie finiscono qui. La prima era unimmigrazione industriale, dalla fine del secolo scorso invece avviene in una società neoterziaria».
E questo che cosa comporta?
«Una rivoluzione. Le fabbriche chiudono, la nuova economia è incentrata sulle nuove infrastrutture delle comunicazioni: internet, cellulari, eccetera. La gente viaggia di più. Cambiano le esigenze urbanistiche. Nellera industriale un posto di lavoro richiedeva mediamente 65 metri quadrati mediamente, nel neo terziario bastano 20-25 metri. Dunque nello stesso spazio possono lavorare più persone, ma al contempo cè meno gente in età lavorativa rispetto a 20 anni fa. La diminuzione della forza lavoro viene compensata dagli immigrati, con unaltra differenza importante rispetto al passato».
Quale?
«Nellera industriale era gente come limmigrato del sud della Spagna, il quale manteneva le proprie radici e talvolta anche la propria famiglia nelle campagne, a poche ore di distanza. Ora invece è gente che proviene da altri continenti e si trasferisce qui per restare. Così il problema più urgente diventa quello dellidentità: armonizzare la cultura dorigine con quella dadozione. Quel che è accaduto a Parigi è emblematico dei rischi che si corrono».
Tutti dicono: niente ghetti. Già, ma come?
«Bisogna indurre le etnie a mischiarsi. Lesempio estremo è quello di Singapore, dove le quote sono fisse per legge e rispecchiano la composizione della popolazione. Nella stragrande maggioranza dei condomini ci devono essere l80% di cinesi, il 15% di malesi-indonesiani e il 5% di indiani e pakistani. Noi europei non possiamo, ovviamente, adottare politiche che inducano gli stranieri a non chiudersi».
Perché Barcellona rappresenta uneccezione?
«Perché diamo molta importanza allo spazio pubblico, intendendo con ciò la piazza, il giardino, il centro sportivo, posti dove la gente vive e sincontra. Nellera industriale questa necessità era sottovalutata (il percorso era obbligato e a orari fissi: casa-fabbrica-casa), ma nel neoterziario è diventata fondamentale, perché i mestieri sono diventati più eterogenei e flessibili. Ed è soprattutto negli spazi pubblici che la gente è indotta a socializzare e a mischiarsi. Noi a Barcellona grazie al progetto olimpico ne abbiamo creati 145 in otto anni. Anche quelli più piccoli sono importanti: creano un ambiente in quartiere. Ma non tutti gli urbanisti europei ne sono consapevoli».
Certo è difficile creare spazi aperti in città che spesso sono medievali...
«Sì, ma anche in questo caso bisogna dare prova di immaginazione. A Barcellona abbiamo riqualificato tutto il lungomare e ora lei può andare in spiaggia in metrò. Bisogna avere coraggio: nel quartiere del Raval, a due passi dalle Ramblas, abbiamo sventrato un isolato per creare una piazza. Qui abitano pakistani, marocchini, asiatici, ma leffetto balsamico di questo spazio è stato straordinario. Senza la Rambla del Raval non so cosa succederebbe. Dove si trovano i bambini per correre e giocare? Dove i giovani?».
Il tutto senza opposizioni?
«Ovvio che no. Cera chi diceva: Non possiamo snaturare Barcellona, la città deve restare come un tempo.
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