Noi che abbiamo ammazzato «Tutto il calcio»

Non possiamo più tenerci dentro questo segreto. È un cold case che, dopo cinquant’anni, è arrivata l'ora di confessare. A uccidere «Tutto il calcio minuto per minuto» siamo stati noi. È colpa nostra se adesso è così, un vecchio zio amato come nessuno, ma che se non c’è nessuno se ne accorge. Non abbiamo più bisogno della sua compagnia per vedere una partita: c’è la pay per view, la telecronaca personalizzata, l’anticipo, il posticipo, Pellegatti, Scarpini, il decoder, la smart card, il digitale terrestre, persino un altro Tutto il Calcio modello Gialappa sempre sulla Rai. Non abbiamo più bisogno nemmeno di una radio per ascoltare la radio. Una volta, nel silenzio dell’etere globale, alla domenica pomeriggio c’era solo lui, lo zio, e solo a partire dal secondo tempo. E noi, banda di ragazzini armati di fionda, figli del futuro che arrivava, cominciammo a pensionarlo. Era il 1976, il primo scudetto del Trap, l'anno in cui moriva Mao e Carter diventava presidente degli Stati Uniti. Niente sarebbe stato più come prima. Ci chiamavamo radio privata per darci delle arie, radio libera dicevano a sinistra, il cubano Juantorena, che era un po' il Bolt del mezzofondo veloce dell'epoca, sorrise a quel ragazzino che invece dell’autografo gli chiedeva un'intervista: «Sei di una radio pirata?...» Proprio così. Pirati. Perché aprire una radio a quei tempi era al limite della legalità, sfidare il monopolio era come saccheggiare la carrozza del re nella foresta di Sherwood, la polizia postale ti metteva i sigilli e non trasmettevi più. La radio privata, o libera veramente che ti piace ancor di più perché libera la mente, era l'internet degli anni Settanta, la libertà di dare voce a chi non l’aveva, sfidare ciò che c’era per cambiarlo per sempre.
A Tutto il calcio rubammo i primi tempi: voleva dire aprire la cassaforte dei segreti, spezzare l'incantesimo dell'attesa, rovinare la rivelazione che il mondo aspettava in preghiera. Le rubammo la suspense con l'euforia di chi si libera di un'inutile catena, eppure ci manca quel tempo sospeso perché era immaginazione pura, perché tutti in tv vedono la stessa partita, ma alla radio ognuno ne vede una a modo suo. Il nostro vascello pirata si chiamava Novaradio Milano, 95 megahertz, nella banda della domenica eravamo in quattro, con il playmaker, Gigi Parodi, padre del giornalismo di basket, Paolo Giarrusso e Bruno Longhi, poi principe dei telecronisti. Al piano di sopra dove abitava Telenova c’era Marco Civoli. Un network ci collegava con le radiocronache del resto d’Italia, un nemico giurato, il Giornale, con i suoi inviati sui campi collegati con Radio Montestella ci sfidava sui nostri stessi spazi. Nei cortili c’era chi metteva gli altoparlanti per seguirci.
Le dirette a San Siro si facevano al bar dei distinti, in piedi sulle cassette della birra perché sennò non si vedeva il campo, dall'unico telefono a gettoni appeso al muro, se un rompipalle doveva telefonare si passava la linea allo studio per gli aggiornamenti dagli altri campi. Chiamavamo le trasferte la “ripetuta”, che era una differita doppiata, si dava voce alle radiocronache che Radiolina Cagliari, Grt Torino o Tv Voxson Roma ci giravano in cuffia via telefono, incasinate, confuse, rumorose, da indovinare come una voce al mercato. Il tifo di sottofondo era un 33 giri in vinile, una compilation di effetti sonori, e non era mai sincronizzato, gridava gol sulle rimesse in gioco e se non ti sbrigavi partiva il sonoro di un treno che entrava in stazione. La ripetuta era sfiga doppia perché ti credevano davvero in trasferta, per questo restavi agli arresti domiciliari fino alla pennichella del vicinato e poi vestito di scuro come un serial killer raggiungevi la radio. A Genova c’era una famiglia che aveva il terrazzo sul campo, al settimo piano: ci prestavano il telefono di casa, e tra il primo e secondo tempo servivano il tè con il pandolce.
Quando cambiammo sottofondo registrando il sonoro da un servizio tv sul mondo degli ultras successe un casino. All’Olimpico un razzo sparato da curva a curva uccise un meccanico di trentatrè anni, Vincenzo Paparelli, e la domenica dopo negli stadi furono vietati persino i tamburi. Ma noi quelli avevamo di sottofondo. Andammo in onda così e il giorno dopo ci ritrovammo sulla prima pagina del Corriere della Sera, articolo firmato dal grande Oreste Del Buono: attaccava il governo e la federcalcio, abbiamo sentito ieri su una radio privata che non ha filtri governativi, scriveva, che i tamburi ci sono ancora, altroché misure d’emergenza, altroché lotta alla violenza. Anni dopo gli raccontammo la verità. Ci rise su come su Scherzi a parte.

Eravamo indietro di secoli ma avanti anni luce, eravamo le nuove tecnologie, la rivoluzione della comunicazione, l'interattività globale. Per colpa nostra Tutto il calcio diventò come noi e fu l’inizio della fine. Passato. Bello solo perché è il papà del futuro.

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