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Noi lenti viandanti sul Benaco, il «liuto» d'acqua suonato dai poeti

Il diario di Orio Vergani lungo le sponde della Gardesana, dove la simbiosi tra uomini e natura sembra quasi magica

di Orio Vergani

Dall'alto, il lago di Garda ha la forma di un vecchio liuto, un liuto celeste chiuso nella custodia delle montagne azzurre. Ecco lassù, nella stretta fra Torbole e Riva, il ricciolo terminale. Ecco le volute dei fianchi che si dilatano e si arrotondano verso Salò e verso Bardolino. Morbida e carezzevole è la grande curva verso Peschiera, là dove il liuto si appoggia alla florida spalla della pianura.

Come le farfalle sotto ad un vetro mantengono intatti i colori delle ali morte, così anche al vetro dell'inverno il lago, come una farfalla meravigliosa, conserva intatti i colori delle ali di quella grande farfalla che è l'Estate. Ali vive e immote, bene aperte e offerte alla nostra contemplazione.

La Gardesana occidentale è certamente con quella che da Sorrento porta a Positano e a Ravello la più bella strada del mondo; ma di un mondo che ha fretta e che conta nervosamente i suoi minuti di viaggio sul quadrante del contachilometri. Invece, con ogni probabilità, era eccessiva anche la velocità delle «carrozze della posta» e dei cavalli con i quali su queste rive viaggiarono Goethe e Heine, sulla sponda veronese vigilata dalla torre scaligera di Malcesine, quando la sponda occidentale era percorsa solo dai navicelli a vela o a remi; la velocità dovrebbe essere ancora dunque quella del passo o del remo: su per i sentieri dei colli o lungo gli azzurri sentieri delle acque. Bisogna, sul Garda, tornare alla velocità di Catullo e di Virgilio: alla velocità del piccolo veliero di Catullo e degli sdrusciti calzari del giovinetto Virgilio che nell'ombra estiva dei salici saliva lungo il Mincio da Pietole a Peschiera e nelle onde del lago presentiva il moto e la voce di quel mare che gli era ancora ignoto e dal quale avrebbe fatto approdare Enea alle spiagge italiche e ai destini di Roma.

Fiorisce lungo ai sentieri l'arancio di Mignon, e verso Riva i pampini della vite di Heine, si allacciano agli ultimi crocefissi di legno scolpiti dai contadini del Trentino. Queste scoperte non si possono fare se l'occhio segue il vibrar della lancetta del contachilometri. Dirò di più, benché possa sembrare un paradosso: la velocità ideale sul Garda è l'immobilità.

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A Gardone, a Limone, a Tremósine c'è ancora qualche vecchio che ricorda quando la strada che saliva da Salò si fermava davanti alle rupi che difendono verso il nord, strapiombando dal colle, Toscolano e Bogliaco. La riviera si faceva muta anche alle sonagliere dei carri, e sul colle si udiva solamente il colpo dello zoccolo dei muli che andavano su per il sentiero trascinando sul basto le lunghe fascine e il frascame dei castagni. Ardevano a mezza costa dei colli i fuochi dei carbonai, il fumo delle loro cataste pareva salir da roghi pagani, calava con una nube grigia e lento si schiariva e si inazzurrava a sciogliersi fra gli oliveti. I volti dei giovanetti carbonai anneriti dalla fuliggine attorno ai lucidi occhi parevano quelli dei giovanetti antichi che nei quadri di Böcklin attendono scalzi, appoggiati ad un tronco di cipresso, che dal folto del bosco appaiano le ninfe.

Al sole della primavera, come vele mosse lentamente, i pilastri delle limonaie si spogliavano dalle stuoie che avevano difeso gli arbusti dalle brine invernali, le piante sbocciavano in meravigliose foglie del più bel metallo verde, le api d'oro seguivano i fili d'aria profumati e nell'altissima quiete solare maturavano i frutti in grappoli pesanti di limoni di cedri di mandarini belli come offerte votive.

Era facile che alle genti che scendevano dal nord e sedevano sotto ai pergolati a bere un bicchiere di Chiaretto o di Bardolino, queste rive sembrassero un compendio dell'intera Italia, tanto da immaginare le loro genti vestite già, invece che alla foggia dei montanari e dei pescatori, alla maniera dei ciociari scoperti da Turner e da Corot. Le vecchie stampe, incise al ritorno dai viaggi sulla traccia dei taccuini da disegno, si popolavano così di fanciulle con il capo coperto dal fazzolettone rettangolare e con la gonnella fiorita di policromi ricami. Il concetto della serenità del lago e il concetto di un suo eterno fiorire si accompagnavano indissolubili, e il viaggiatore che ancora oggi voglia sostare con occhio non troppo distratto nell'atrio di un vecchio albergo di Riva potrà scorgere sul caminetto due statuette modellate e dipinte in una vecchia manifattura imperiale austriaca che, raffigurando per i nostalgici del lago la figura di un pastore e di una pastorella del Benaco, ha immaginate le loro vesti addirittura tutte dipinte e trapunte a mazzolini di viole e di ciclamini, con ghirlande di glicine che si avvolgono ai pantaloni e al giubbetto dell'uomo, e con corone di fiori d'arancio e di limone che inghirlandano i polsi, il collo e i capelli della donna.

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Non so immaginare il Benaco come un lago da rapidi viaggiatori: ma piuttosto come un lago di tranquilli viandanti. Questo mi è stato insegnato da quei grandi suoi viandanti che si chiamano Catullo, Virgilio, Dante, Goethe, Heine, Ibsen, Lawrence e d'Annunzio, e per questo non mi sono meravigliato quando tre anni or sono, arrivato a Malcesine, André Gide, che pur nella sua vita aveva tanto viaggiato fra la Russia e il Congo, fra il Marocco e gli Stati Uniti, se ne sia stato talmente quieto all'ombra dell'antica torre scaligera da far sì che in quasi due mesi quasi nessuno si è accorto di lui, ammutolito nella contemplazione e nella lettura.

Una volta si credeva che i maghi si ritirassero in grotte misteriose o in romiti castelli per operare i loro incantesimi e mescolare filtri e disegnare intrecci cabalistici. A questo si credette fino ai tempi di Don Chisciotte. Ma io credo piuttosto che una capacità di incantesimi sia in determinati luoghi della natura, e che nel caso del Benaco uno degli incantesimi di cui è maestro il misterioso nume del lago sia quello che probabilmente permette anche al genio dalla fronte olimpica di mimetizzarsi nella figura, nel volto, nei sentimenti di un oscuro anonimo passante.

Basta rileggere a questo proposito le pagine gardesane del Viaggio in Italia di Goethe, con la storia del suo quieto andare per la via da Torbole a Malcesine, e poi giù, giù sino al bivio per Verona. Basta andare a Gargnano, e sostare sul Lungolago a cercare la facciata del piccolo albergo dove D. H. Lawrence sostò nella prima tappa della sua avventura di nomade che facendogli percorrere inquieto tutti i paesi del sole, dall'Italia al Messico, lo portò ad accendere nella letteratura moderna le ultime faci del suo romantico ritorno al paganesimo e alla natura. Egli fu qui con Frida, all'inizio di quella fuga d'amore che durò tutta la vita, calò con lei dalla Baviera gelida con il sacco dei globe-trotters in spalla, il figlio ammalato dei minatori del Galles placò qui per lunghi mesi la sua tosse e le sue ansie di amante, raccontò la storia di queste acque e di queste colline, delle siepi e dei sagrati sassosi davanti alle piccole chiese, dei cancelli rugginosi, dei piccoli cimiteri e delle voci delle donne che, anche se parlano sommesse dalle soglie, il vento le ingrandisce e le porta lontano fra gli oliveti d'argento. Nessuno seppe chi fosse lo scarno inglese dalla barba rossa, supponendosi solo ch'egli fosse null'altro che un giovane un poco malandato in salute. Questo è l'incantesimo del Mago Benaco maestro mimetizzatore.

Chi scende, deviando dalla Gardesana, alle case di Limone, accucciate sulla riva, quasi nascoste al traffico della grande strada, per cercare la casa di Ibsen? Anche Ibsen arrivò a Limone per nascosti segreti sentieri noti solo ai muli dei carbonai e dei giardinieri delle limonaie, o forse con una delle barche che da Riva calavano a filo di vento per far nel piccolo porto il carico dei limoni da riportar poi su agli approdi delle vie che salivano verso Alemagna. Chi cerca la casa di Ibsen, giovane scrittore povero che qui andava componendo Peer Gynt? Anch'egli sembrò solamente un viandante fermo a riposare in una casetta solitaria, il campanello della sua casa non suonava mai, rare lettere arrivavano al nome del giovane straniero dagli occhiali professorali, che coltivava con le sue mani la sua siepe di gelsomini. Chi scende a cogliere un ramoscello fiorito del gelsomino di Ibsen? Anche sulla piccola casa è passato il soffio mimetizzatore del lago che avvolge volti e memorie e tutto trasforma forse in un colore, forse in una luce smemorante e che riporta tutto, vorrei dire, alla forma primordiale, quasi cellulare della Natura, eguale il poeta al fiore, la rima eguale ad un polline, una memoria umana eguale ad una radice di ulivo, un sogno eguale alla molle curva di una palma, e il tetto della vecchia casa di Cargnacco, chiusa poi nelle marmoree cinture degli archi del Vittoriale, eguale, con le sue vecchie tegole, e le tarlate travi, ad una delle tante mistiche case dove non si ode altro rumore che quello della ruota e della pietra dei vecchi frantoi da ulive.

«Le vie d'Italia» - maggio 1951

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