da Mae Sot (Frontiera thailandese-birmana)
«Perché dovrei aver paura, cosa dovrei temere? In fondo vi dico solo cose che in Birmania sanno tutti, racconto solo la verità». Il monaco Sandaw Bar Tha si accende il lungo sigaro verde e sorride. Sembra quasi divertito. Ha appena superato il posto di blocco al termine del cosiddetto «Ponte dell'Amicizia», l'arcata di ottocento metri sul fiume Moei che separa la Thailandia dalla cittadina birmana di Myawadi. Conta di riattraversarlo tra qualche giorno, non appena avrà curato i suoi acciacchi da cinquantenne in un centro d'assistenza medica gestito da profughi birmani.
Ma Sandaw Bar a differenza dei suoi colleghi in arancione e dei suoi compatrioti non scuote la testa, non corre via spaventato, non risponde con l'aria sorniona di chi giura non aver sentito un solo fiato, un solo accenno alle dimostrazioni e agli spari nelle strade di Rangoon. «Certo che ne ho sentito parlare, ho visto le proteste e in fondo ne ha parlato anche la radio birmana... dunque perché non dovrei parlarne io. Secondo me stiamo attraversando un momento cruciale, ma dobbiamo avere la forza di andare avanti. Otterremo qualche risultato soltanto se i monaci e i civili continueranno a scendere in piazza. Se si arrendono e smettono di protestare sarà la fine del movimento, la fine di ogni speranza».
Lei arriva da Myawadi e lì i monaci non protestano, anzi appoggiano il regime. Come giudica la scelta dei confratelli di Rangoon?
«Monaci e civili sono come moglie e marito, la nazione è come una grande famiglia, se qualcuno sta male tutti finiscono con il soffrire. Se la crisi economica rende impossibile la vita dei cittadini è difficile illudersi che i monaci possano star bene. I miei confratelli soffrono per la povertà del Paese e anche per la mancanza di libertà. Esattamente come i cittadini. Dunque è logico che in momenti come questi i monaci stiano al fianco dei loro compatrioti e protestino assieme a loro».
Qualcuno dei suo colleghi arrivato da quello stesso ponte dice che i monaci non devono scendere in piazza, non devono metter la propria immagine al servizio della politica...
«Non possiamo protestare per motivi religiosi, non possiamo scendere in piazza in nome della fede, ma possiamo farlo per motivi sociali, in fondo mangiamo anche noi...».
Si spieghi meglio...
«È semplice, in Birmania la vita è sempre più difficile, manca il cibo, molta gente mangia una volta sola al giorno, molte famiglie sono ridotte allo stremo. I monaci stanno con la gente, ascoltano i racconti dei più poveri, vedono la situazione, non possono girare la testa dall'altra parte. Lo scorso agosto, quando il governo ha aumentato il prezzo del carburante e la popolazione ha iniziato a protestare, i miei confratelli di Rangoon non si sono potuti tirare indietro. È stata una scelta praticamente obbligata».
Dunque è una protesta economica, non una rivolta per la democrazia?
«Se la Birmania fosse governata da un'autentica democrazia la vita sarebbe più facile. I miei confratelli protestano nella speranza di vedere migliorare le condizioni di vita della popolazione. La libertà secondo noi rappresenta una delle condizioni essenziale per il benessere delle persone».
Chi può guidare il Paese alla democrazia?
«Tra i leader attuali l'unica speranza secondo noi si chiama Aung San Suu Kyi».
Avete rapporti con lei?
«Io sto a Myawadi, ma penso proprio che i miei fratelli di Rangoon siano in contatto con lei».
L'inviato dell'Onu Ibrahim Gambari ha appena concluso la sua visita in Birmania, pensa sia stata una missione positiva?
«Solo le Nazioni Unite possono in questo momento aiutare la Birmania, spero proprio che l'Onu riesca ad aiutarci. Io ho fiducia nella missione dell'inviato, ma spero sappia dimostrare un po' di forza. Solo così potrà ottenere qualche concessione».
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